di Piero Ostellino
Ora che i corpi di Salvatore e Francesco Pappalardi sono stati trovati in un pozzo, dove nessuno era andato a cercarli, emerge un volto della nostra giustizia penale a dir poco discutibile. Da un lato, il padre dei due bambini, Filippo Pappalardi, in carcere perché indiziato, sulla base solo di un’intercettazione ambientale e della fragile testimonianza (tardiva) di un bambino, di averli uccisi. Inoltre un' inchiesta che ha cercato Salvatore e Francesco nelle grotte di Matera, nelle campagne delle Murge, persino in Romania, lungo le piste delle sette sataniche e del traffico di organi. Dall'altro, il casuale ritrovamento dei loro corpi in un pozzo nel centro di Gravina, non lontano dalla piazza dove erano stati visti l'ultima volta. Da un lato, dunque, il volto di una giustizia metafisica, che cerca aprioristicamente la verità attraverso la speculazione intellettuale e gli indizi, anche i più inverosimili, costruiti nel laboratorio della mente inquirente. Dall’altra, la scoperta casuale dei corpi dei due bambini morti, ma per fame e per freddo, nella profondità di un pozzo.
Quale verosimiglianza logica si può rintracciare nel gesto di un padre presunto assassino che non avrebbe ucciso i suoi figli, ma li avrebbe gettati vivi in un buco, e non nella sperduta campagna, bensì in un luogo dove qualcuno avrebbe potuto ritrovarli prima della loro morte? Ma il procuratore di Bari, Emilio Marzano, ha detto: «L'impianto accusatorio per ora rimane, non abbiamo elementi per ripensarlo». Sotto il profilo formale, l'affermazione è ineccepibile. Sotto quello sostanziale, appare, però, incauta almeno per due ragioni. La prima: il ritrovamento dei due fratelli nel pozzo dove l’altro giorno è caduto il bambino e l'autopsia dei loro corpi aprono interrogativi nuovi che il dottor Marzano aveva evidentemente sbagliato a escludere a priori. La seconda: per ora, la colpevolezza di Filippo Pappalardi è confermata solo dalla sua carcerazione preventiva, direbbe il filosofo dei diritti civili «per mezzo del castigo», e dal carattere ferocemente arcaico della sua figura.
Forse non è inutile ricordare che l'esposizione prolungata dell'indiziato all'avvenimento minaccia di distruggerne l'immagine e, probabilmente, già l'ha distrutta. La verità mediatica, in questi casi, rischia di apparire più forte di quella vera e non è attraverso la prima che si può ragionevolmente sperare di pervenire alla seconda. Qui non è in discussione la colpevolezza o l'innocenza del Pappalardi. Sono in discussione un pregiudizio giudiziario e la stretta correlazione fra il sistema giudiziario e quello mediatico che sta diventando tale da rendere sempre più difficile capire dove finisca l'uno e incominci l'altro e viceversa. Scrive Daniel Soulez Larivière: «La magistratura scopre con delizia che accanto alle armi terrificanti che esistono già nel codice di procedura penale esiste anche lo strumento mediatico che lo completa efficacemente» («Il circo mediatico- giudiziario», ed. Liberilibri). Eppure, il rimedio a questa confusione dei ruoli che si è imposta in Italia da quindici anni a questa parte e che nuoce sia alla magistratura sia al giornalismo, ci sarebbe: scindere la fase istruttoria e investigativa, rigorosamente coperta da segreto, da quella giurisdizionale e dibattimentale, aperta invece al pubblico.
Corriere della Sera 28 febbraio 2008
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