Gravina in Puglia. Qui a Gravina, nel paese che ingoia i bambini, il sindaco Rino Vendola si lamenta perché quando un anno fa provò a murare l’ingresso di alcuni ruderi i proprietari minacciarono di metterlo in croce. Perciò, ancora oggi nelle mille caverne sparse ovunque si può precipitare un giorno sì e un altro pure. E insomma: che razza di paese è un paese che non protegge i suoi figli più fragili? E che li ingoia nei suoi antri più osceni? E che addirittura protesta e minaccia se c’è chi almeno vuol provare a introdurre un rimedio? Sgomento, disagio, poca voglia di commentare. Ora, al di là dei fiori e delle poesie accumulate sul marciapiede davanti alla «casa delle cento stanze», nelle stradine è tutto un rincorrersi di mezze frasi e di sguardi oblunghi e di occhiolini che fanno intendere che si sa e non si sa ma che però, se qualcosa davvero si sa, poco o nulla in concreto si dice. In tanti, anzi in troppi, qui giurano di ricordare, e di aver visto, e di aver sentito, e di aver a suo tempo perfino avvertito. Già, ma avvertito chi? Sentito che cosa? E dove? E come? E quando? È quasi un’orgia di rimembranze, o di un qualcosa che vi assomiglia, però tutte labili e alla fine inconcludenti. I testimoni? Trattasi per lo più di adolescenti, in età di fantasie assai spinte e di immaginazione esasperata spesso al massimo dei decibel. E allora ecco che pure lui, 13 anni, il ragazzino che l’altra sera ha invocato i soccorsi per salvare l’amico Michele finito nella cisterna in cui erano sepolti i fratellini, adesso parla e parla e ricorda e addirittura ammonisce: «Ciccio e Tore? Ma certo che li ho visti giocare anche loro nella casa delle cento stanze». E altri, categorici: «Spesso li sfottevamo perché sembravano intimoriti. Era una sfida entrare in quelle stanze buie». Già, ma alla polizia tutto ciò lo hai confidato? «Certo che l’ho detto - è la risposta - ma forse non mi hanno creduto». E a complicare il già ingarbugliato mosaico spunta il racconto di Annarosa Melillo, psicologa del consultorio familiare di Gravina. Altro che paurosi. Lei disegna Ciccio e Tore esattamente al contrario rispetto ai loro amichetti. E assicura: «Erano bambini abituati ad andare per strada fin da piccolissimi. Sprezzanti di ogni pericolo». E ancora, immaginandoli quasi funamboli qui nel paese dei precipizi: «Camminavano sui cornicioni di casa. E si cimentavano in imprese impossibili». Insomma: vero, verosimile e palesemente improbabile continuano a mescolarsi come se niente fosse in questa orrenda favola raccontata assai male. Un micidiale cockaitl di contraddizioni. E per chi deve scoprire una verità, non è mica facile lavorare. «Le indagini sono state animate da una volontà senza pari», precisa il prefetto di Bari Carlo Schilardi rintuzzando le critiche piovute da più parti. E aggiunge: «Non abbiamo scuse da chiedere. nelle indagini si può dire che si sia magari strafatto ma di sicuro non si è mai sottovalutato alcun dettaglio». E le ricerche? È vero o no che partirono in ritardo? «Partirono immediatamente e con tutti i mezzi disponibili», assicura il prefetto. E si scava, nella vita dei due fratellini. E rispuntano le loro letterine, quelle in cui Ciccio e Tore sussurrano di minacce e violenza, di affetti rarefatti e persi per strada, di quella famiglia sfortunata finita in mille pezzi sparpagliati qua e là. Come poveri resti. Come quei poveri resti ritrovati in cisterna. Sparpagliati. Come le mezze frasi ricucite nei verbali delle intercettazioni, quelle che per i magistrati di Bari inchiodano papà Filippo nel suo ruolo di assassino senza se e senza ma. O quasi. e. c.
Il Mattino 29 febbraio 2008
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