sabato 23 febbraio 2008

Erba: Tavaroli, "Olindo non ha mai detto di essere direttamente responsabile dei fatti, ma non si è mai detto innocente"

L’impianto dell’accusa arricchito dalle deposizioni di Giuliano Tavaroli e Andrea Frigerio
La strage di Erba / in aula nella settima udienza anche papà Castagna e Azouz: «Raffaella mi mandò un sms, si sentiva insicura senza di me»

«Non ha mai affermato in alcun modo di essere stato direttamente responsabile dei fatti, ma non si è mai nemmeno detto innocente. Nei suoi discorsi era implicita la sua responsabilità». Prima di diventare capo della sicurezza di Pirelli (e successivamente del gruppo Telecom Italia), Giuliano Tavaroli è stato ufficiale della sezione anticrimine dei carabinieri di Milano. Conosce benissimo i meccanismi del processo penale, sa cosa dire e come farlo. E il resoconto dei suoi colloqui in carcere con Olindo Romano è uno degli scogli più duri da superare per la difesa. Che si è trovata di fronte un testimone scomodissimo, estraneo alla vicenda, ma capace di ricordare con nettezza il dettaglio delle “confessioni” fatte dall’ex netturbino nel carcere del Bassone al vicino di cella. La settima udienza del processo per la strage di via Diaz è stata segnata, almeno sul piano più strettamente probatorio, dalle deposizioni di Tavaroli e di Andrea Frigerio, figlio di Mario e di Valeria Cherubini, due delle cinque vittime della carneficina della corte erbese. Testimone in carcere Sia Tavaroli (finito in carcere nel settembre 2006 nell’ambito dell’inchiesta sui dossier illegali realizzati per conto di alcuni funzionari del Sisde), sia Andrea Frigerio hanno stretto Olindo in un angolo. Il primo, raccontando quanto ascoltato nella sezione “osservazione” (in pratica, l’isolamento) del Bassone da febbraio a giugno 2007; il secondo, ripetendo senza alcun tentennamento le parole del padre. Le parole che inchiodano uno degli imputati quale autore materiale della strage. Cominciamo da Tavaroli. Che viene trasferito in carcere a Como nel febbraio 2007. L’ex ufficiale dell’Arma, oggi 49enne, ha come unico compagno di sezione proprio Olindo Romano. «Faceva una vita quotidiana appartata, da persona molto riservata. Accettava la sua vicenda, parlava delle aspettative di vita e la cosa che gli pesava di più era sicuramente la prospettiva di vivere lontano dalla moglie». I due si parlano attraverso le sbarre, li divide un corridoio di pochi metri. Lentamente, Olindo si apre al vicino di cella. Parla. E racconta. «In un’occasione mi disse della sua confessione, era stata una sorta di liberazione dalla pressione di moltissimi giorni di stampa e tv». A un certo punto il discorso cade sul tema del perdono. «Olindo mi disse di essere stato perdonato da Carlo Castagna. Non si sentiva però pronto ad accettarlo, questo perdono. Sosteneva che anche a lui dovevano chiedere perdono perché a lungo, per sette anni, era stato oggetto di angherie. Mi disse anche di essersi rivolto a chi poteva risolvere il problema, ma che non accadde nulla altrimenti non avrebbe fatto quello che poi era accaduto». Parole inequivocabili, che Tavaroli ripete anche nel controinterrogatorio della difesa. A rafforzare e rendere ancora più credibili le affermazioni dell’ex capo della sicurezza di Telecom, la spiegazione di come, al termine della sua carcerazione comasca, il legame tra i due fosse diventato più stretto. «Mi fece leggere la “chiusura indagini” e per la prima volta ebbi cognizione dei fatti specifici. Gli restituii il documento dicendogli che la sua era una situazione pesante. Ci sarebbe stato il processo, per lui era un momento difficile». Tavaroli lascia il Bassone e Olindo annota sulla sua Bibbia: «1 giugno 2006, scarcerato, Tavaroli Giuliano ciao, mi hai lasciato un vuoto incolmabile». Il figlio del sopravvissuto Andrea Frigerio depone alla fine di una giornata lunga, a tratti persino estenuante. Precede il padre, Mario, che sarà chiamato davanti alla Corte d’Assise martedì prossimo. La testimonianza dell’unico sopravvissuto alla strage è ovviamente il momento più atteso di tutto il processo. Ma il figlio ne anticipa in qualche modo l’esito. Dirompente. E definitivo. «Dopo il primo interrogatorio con il pm (del 15 dicembre 2006, ndr) e prima di quello dei carabinieri (del 20 dicembre 2006, ndr) gli chiesi l’età dell’aggressore - “non giovane né vecchio”, mi disse - e qualche chiarimento sulla pelle olivastra di chi lo aveva colpito - “né pallido né scuro”, mi spiegò. Successivamente, gli chiesi dei capelli, per capire se l’aggressore poteva avere in testa un cappellino di lana. “No, rispose, erano capelli”. Infine, gli domandai se era convinto che il suo aggressore fosse stato Olindo. Mi disse di sì. Sin dal primo momento era stato sicuro che fosse lui». L’assassino è il vicino di casa. Frigerio lo ripete più volte. Al figlio, al pm, ai carabinieri di Erba. «Mio padre era consapevole delle conseguenze di quelle sue accuse, diceva di non riuscire a spiegarsi perché una persona che conosceva avesse fatto quello che aveva fatto». La difesa insiste sulla sua linea. Il riconoscimento di Frigerio fu “indotto” dai carabinieri, che suggestionarono l’uomo scampato per miracolo alla morte. Ma Andrea, il figlio, taglia corto. «Mio padre cambiò espressione quando sentì fare il nome di Olindo. Era l’espressione di chi si aspettasse la domanda, con gli occhi disse: “Ci siete arrivati”, finalmente». Da.C

Corriere di Como 23 febbraio 2008

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