Da Minorigiustizia n.2 / 2007
Il negazionismo dell’abuso sui bambini,
l’ascolto non suggestivo
e la diagnosi possibile
di Claudio Foti
*
1. Due verità indigeste relative al trauma infantile
La recente sentenza della Cassazione17 gennaio - 8 marzo 2007 n. 9817,
riportata qui di seguito, offre lo spunto per una riflessione di ampia portata
sulla cultura della negazione dell’abuso sessuale sui minori: una cultura in
espansione dalle forti influenze e dalle ampie articolazioni.
Che l’abuso dei più forti sui più deboli, dei più grandi sui più piccoli
esista e sia diffuso - come più oltre approfondiremo - è una prima amara
verità, che non è semplice accettare. Ma una seconda verità, connessa alla
violenza, rischia di non essere compresa: quella in base a cui ogni violenza
tende strutturalmente ad essere negata ed occultata nella sua consistenza e
nelle sue conseguenze.
Questa negazione e quest’occultamento si consumano a tre livelli: a) da
parte degli autori della violenza che tenteranno in ogni modo di nascondere
le tracce, per restare innocenti ai propri occhi ed impuniti; b) da parte del
testimone che tenderà spesso a voltarsi dall’altra parte per non essere
coinvolto emotivamente e per non essere chiamato in causa nel conflitto
scatenato dalla violenza; c) da parte della stessa vittima, che cercherà di
allontanare e di evacuare dalla propria mente il peso di ricordi penosi e
sconvolgenti connessi all’esperienza traumatica subita.
La prima verità attinente al trauma infantile è, dunque, che esso esiste
come rischio frequente: la violenza si può scatenare facilmente, laddove si
manifesta quella sproporzione di forza, di potere, di età, di esperienza che
caratterizza il rapporto tra le generazioni. La seconda verità è che il trauma
tende a non essere pensato da parte degli autori, da parte dei testimoni e da
parte delle stesse vittime. La stessa comunità scientifica è arrivata con forte
ritardo e con forti resistenze a studiare e a classificare le sindromi post-
traumatiche, a riconoscere e a considerare le reazioni traumatiche nei
bambini; stenta tuttora ad avvicinarsi ai bisogni di cura dei soggetti
*
Psicoterapeuta, direttore scientifico del Centro Studi Hansel e Gretel, Torino.
traumatizzati e a riconoscere le dimensioni massicce della violenza ai danni
dell’infanzia nelle sue diverse forme (psicologica, fisica, sessuale,
istituzionale).
La negazione è intrinseca alla violenza. Non esiste guerra o sterminio
senza un sistema di propaganda impegnato a dimostrare l’inevitabilità e la
legittimità di quegli eventi o a sostenere che non si ha a che fare con guerra
e sterminio, bensì con iniziative nobili e necessarie. Non esiste storia di un
genocidio senza una schiera di negazionisti o revisionisti tesi a dimostrare
che a ben vedere genocidio non c’è stato. Il furto di verità accompagna
sempre l’appropriazione strumentale del corpo del bambino sin dalla fase
preliminare della seduzione da parte dell’adulto perverso con l’imbroglio e
la manipolazione che preparano e consentono l’abuso. La negazione è
costitutiva del trauma. L’abuso sui bambini in tutte le sue forme si produce
in due tempi: c’è il tempo dell’azione in cui si consuma il maltrattamento
fisico, il coinvolgimento sessuale, la squalifica o manipolazione
psicologica ai danni del bambino; e c’è il tempo della negazione nel quale
l’adulto abusante trasmette al bambino il messaggio metacomunicativo
implicito od esplicito: “Non devi accorgerti che questa è violenza…”:
“Non sono percosse, è che ti devo educare…”, “Non è sadismo, fa più male
a me che non a te…” (per il maltrattamento fisico); “Non è abuso, sono
coccole… e anche a te piace!”, “Non è abuso, ti sto facendo scoprire un
gioco meraviglioso…”, “Non è abuso, tutti i padri lo fanno…” (per l’abuso
sessuale); “Non è che ti sto umiliando, il fatto è che te lo meriti…”; “Non è
che ti sto espropriando del tuo bisogno di autonomia, è che ti voglio troppo
bene…” (per la violenza psicologica).
2. La mente umana di fronte alla violenza è falsificazionista
L’autore della violenza tende a quattro scansioni di negazione: 1. nega i
fatti e - ciò che è più patogeno per la vittima - la percezione dei fatti da
parte di quest’ultima (“non è vero niente”, “erano solo coccole…”, “te lo
sei sognato…”); 2. nega la propria consapevolezza (“non me ne sono reso
conto…”, “ero fuori di me…”); 3. nega la propria responsabilità (“era la
bambina che me lo chiedeva”); 4. nega le conseguenze della propria azione
(“in fondo non è successo niente di grave”)
1
. Ed ovviamente nega la
negazione, ovvero nega il proprio tentativo di cancellare le tracce (“non
devi accorgerti di tutto quello che ho fatto per fare silenzio attorno a questo
abuso”). Peraltro l’elaborazione in sequenza di queste quattro modalità
successive di negazione - sia in riferimento ai fatti di violenza compiuti, sia
1
Cfr. T.S. Trepper, M.J. Barrett, Systemic Treatment of Incest, Brunner-Mazel, New York, 1989.
in riferimento ai fatti di violenza subiti nella propria infanzia - costituisce
l’essenza del difficilissimo percorso psicoterapeutico degli abusanti
2
.
In ogni forma di abuso all’infanzia l’autore è spinto necessariamente a
negare e ad attivare un sistema di supporters che lo aiutino a nascondere
l’accaduto; il testimone, reale o potenziale che sia, è spinto a fare un passo
indietro e a reagire con l’indifferenza; la vittima è spinta a rimuovere o a
espellere dalla propria mente, parzialmente o interamente, i fatti accaduti e
i sentimenti vissuti nel corso della sua vittimizzazione. Ai diversi livelli
dunque la verità della violenza si fa largo, necessariamente, tra grandi
resistenze.
Il trauma è un’esperienza che tende ad eccedere la pensabilità
3
nella
mente della vittima; è un’esperienza che tende a travalicare non solo la
capacità di ammissione da parte dell’autore, ma anche la capacità di
percezione del testimone e la capacità di riconoscimento culturale della
comunità sociale e, spesso, della stessa comunità scientifica. Se la mente
umana fosse costituita da componenti esclusivamente cognitive potrebbe
avere fondamento l’affermazione della sopraccitata sentenza della
Cassazione in base a cui “la naturale propensione della mente è
verificazionista”. Può essere vero infatti che “quando ci formiamo una
idea, tendiamo naturalmente ed inconsapevolmente a confermarla”
4
. Ma di
fronte agli eventi traumatici la reazione fisiologica della mente tende a
priori ad essere falsificazionista e negazionista. La mente umana, non
potendo accettare senza dolore, conflitto e resistenza fatti e situazioni che
evidenziano la radicale impotenza del soggetto umano, reagisce
automaticamente rifiutando di soffermare lo sguardo sulla realtà della
violenza e del male.
Questa è la ragione per cui la mente umana si volta dall’altra parte di
fronte alla verità della morte, della malattia, del trauma. Questa è la ragione
per cui le atrocità della storia umana tendono a non essere credute,
ricordate, documentate da parte degli stessi storici. Questa è la ragione per
cui la pediatria ha impiegato decenni prima di poter stabilire un nesso fra le
ecchimosi e le ossa fratturate dei bambini e l’ipotesi del maltrattamento
fisico. Questa è la ragione per cui in genere l’ultima ipotesi che un’équipe
di operatori prende in considerazione nella diagnosi del malessere di un
bambino è quella della violenza ai suoi danni
5
. Tanto più sconvolgente è
2
Cfr. C. Foti, “Psicoterapia dell’autore di reati sessuali”, in C. Foti. La psicoterapia dei bambini e degli
adulti vittime di violenza, SIE editore, Pinerolo (To), 2007.
3
Cfr. F. Borgogno, “Originalità e creatività del concetto di trauma nel pensiero e nell’opera di Sándor
Ferençzi”, in C. Foti (a cura di), Ascolto dell’abuso e abuso nell’ascolto. Contesto clinico, giudiziario,
sociale, FrancoAngeli, Milano, 2003.
4
Così la sentenza della Cassazione 17 gennaio - 8 marzo 2007 n. 9817, riportata oltre in questo fascicolo.
5
Cfr. C. Foti, “Il maltrattamento e l’abuso sessuale ai danni dei minori: la violenza impensabile”, in C.
Roccia (a cura di), Riconoscere e ascoltare il trauma, FrancoAngeli, Milano, 2001.
l’ipotesi della violenza tanto maggiore è la reazione fisiologica
dell’incredulità, la quale inevitabilmente ostacola o impedisce di trovare
prove e conferme a quell’ipotesi.
3. Trauma, storia e società
La crescita di consapevolezza del fenomeno del maltrattamento
all’infanzia procede attraverso diverse fasi temporali e attraverso il
superamento di successivi sbarramenti di resistenza: possiamo dire che
abbiamo socialmente raggiunto un certo livello di consapevolezza, anche se
non pienamente soddisfacente, sul fenomeno della violenza fisica; stiamo
affrontando le fortissime e riemergenti resistenze a riconoscere l’abuso
sessuale; evidentemente ci vorrà ancora parecchio tempo prima che la
comunità adulta sia in grado di prendere coscienza e di responsabilizzarsi
in modo adeguato sul fenomeno, ancor più diffuso e coinvolgente, della
violenza psicologica e su situazioni ancora sommerse quali per esempio gli
abusi sessuali di gruppo. A quest’ultimo proposito, la prima verità è che gli
abusi organizzati (ritualistici
6
o finalizzati al traffico di materiale
pedopornografico) esistono e sono diffusi; la seconda verità è che sono
destinati a restare ancora a lungo sostanzialmente impensabili e pertanto
socialmente inaffrontabili dal punto di vista preventivo e repressivo.
All’inizio del suo libro su trauma e guarigione, Herman afferma: “La
storia del trauma psicologico soffre di amnesia ricorrente. Il conflitto
intrapsichico della vittima di un trauma tra tentativo di dimenticare e il
non poterlo fare, si riflette nella comunità scientifica. Si sono alternate fasi
di attiva investigazione a fasi di rimozione”
7
. Nella comunità scientifica
viene a riflettersi il conflitto tra il perpetratore e la vittima. Nell’epoca
attuale si contrappongono duramente tendenze e controtendenze, spinte al
riconoscimento dei diritti della vittime e spinte alla difesa degli abusanti.
Per la Herman il dibattito nella comunità scientifica è centrato sul fatto se
questi fenomeni siano credibili e reali. Periodicamente la questione del
trauma diventa culturalmente interdetta e impensabile. Sul piano sociale il
perpetratore, quando appartiene alle classi dominanti, come non di rado
capita, usa i propri mezzi per promuovere silenzio e oblio e, se fallisce,
tenta di attaccare la credibilità della vittima. Quest’ultima chiede invece di
dividere il peso del dolore. Ma se la vittima, in quanto donna, in quanto
bambino è già un soggetto debole e socialmente svalutato, la squalifica e
6
Cfr. http:// www.ra-info.org; inoltre C. Roccia, “Bambini vittime di abusi sessuali ritualistici e sette
sataniche: trauma e meccanismi di difesa dalla sofferenza”, in C. Roccia, Riconoscere ed ascoltare il
trauma, FrancoAngeli, Milano, 2001.
7
J. L. Herman, Trauma and recovery, The aftermath of violence, Basic Book, New York, 1992.
l’isolamento rendono l’esperienza incomunicabile. Se la vittima non trova
un ambiente sociale supportivo, soccombe.
Il trauma è un’esperienza sovrastante le possibilità di pensiero e di parola
della vittima: da sola non può reagire alla propria sofferenza e prendere in
mano il proprio futuro. La vittima ha bisogno di un grande sostegno - sul
piano pratico, informativo, emotivo - da parte degli altri ma, in quanto
soggetto particolarmente sofferente e problematico, risulta tendenzialmente
perdente, emarginata nella società e spesso nella stessa famiglia, inascoltata
nel proprio dolore, nella propria impotenza e nella propria domanda di
giustizia. Le problematiche e le istanze del soggetto traumatizzato sono
destinate dunque ad essere scarsamente valutate dalla comunità sociale,
tanto più prevalgono in questa tendenze conservatrici e modelli culturali
basati sulla forza e sul privilegio. Tali problematiche e tali istanze
cominciano ad essere considerate quando cresce una sensibilità politica e
culturale di tipo democratico, quando emergono risorse di ascolto e di
attenzione nei confronti dei più deboli.
Gli sviluppi dell’attenzione clinica e scientifica alle problematiche dei
soggetti traumatizzati sono stati storicamente sollecitati dai movimenti per i
diritti umani capaci di esprimere valori democratici e solidaristici: l’interesse
al tema dell’isteria femminile, dei reduci di guerra affetti da nevrosi
traumatica, delle donne vittime di stupro, dei bambini vittime di violenze si
sono sviluppati in relazione, rispettivamente, al movimento anticlericale e
repubblicano francese della fine dell’800, in relazione al movimento pacifista
sviluppatosi negli USA durante e dopo la guerra in Vietnam, in relazione al
movimento femminista e al movimento contro l’autoritarismo patriarcale
degli anni ’60 del secolo scorso.
4. Il negazionismo dell’abuso e le sue tesi
Il trauma infantile conseguente all’abuso è una verità che non può essere
eliminata. Il trauma è una bomba ad orologeria se non viene elaborato: può
essere rimesso in scena con le più svariate modalità per l’intera esistenza ed
essere ribaltato e scaricato su altri bambini a distanza di decenni dalla sua
genesi. Il trauma tende inevitabilmente ad emergere e riemergere attraverso
il linguaggio dei sintomi e attraverso l’insopprimibile bisogno di
trasformarsi in parola e diventare oggetto di narrazione. Nel contempo il
trauma infantile è destinato ad essere contrastato da forti movimenti
difensivi di rimozione, negazione, razionalizzazione, dissociazione. E non è
solo il soggetto traumatizzato a dissociare l’esperienza stressante
dell’abuso subito. È la stessa comunità a dissociare le dimensioni di
violenza che risultano socialmente e culturalmente impensabili e
indigeribili.
In questa cornice, caratterizzata dalla dialettica conflittuale insita nel
trauma, occorre collocare l’attuale dibattito sulla valutazione della
attendibilità della presunta vittima di abuso sessuale e l’emergenza
crescente di tendenze culturali, scientifiche ed istituzionali negazioniste.
Non c’è violenza senza negazione. Non c’è violenza senza negazionismo
ovvero senza che compaia un discorso coerente e articolato teso a sostenere
la negazione con una varietà di argomenti. Il negazionismo dell’abuso sui
bambini in generale e dell’abuso sessuale in specifico è una tendenza
culturale e scientifica che, con apporti di diversa natura, consistenza e
qualità, tende ad affermare:
1. la violenza all’infanzia non presenta dimensione massive e non
rappresenta un’emergenza sociale;
2. una parte rilevante o addirittura maggioritaria delle denunce o dei
ricordi di abusi sono falsi;
3. le campagne di prevenzione dell’abuso sono in qualche misura dannose,
favorendo un eccesso di allarmismo in adulti, i quali poi rischiano di
trasferire le loro ansie sui bambini, innescando così processi inducenti
false accuse;
4. l’abuso è muto e non lascia tracce specifiche e decifrabili con certezza;
5. la suggestionabilità dei bambini è elevatissima e la competenza
testimoniale del bambino presunta vittima dell’abuso è assai scarsa o
nulla;
6. interviste mal poste hanno il potere di indurre falsi ricordi o addirittura
di generare sintomi post-traumatici;
7. la memoria dei bambini in genere e dei bambini traumatizzati in
particolare è inaffidabile;
8. dunque, anche quando esiste, l’abuso su un minore è impossibile o molto
difficile da dimostrare;
9. l’ascolto del bambino in contesto forense deve escludere atteggiamenti
di comprensione emotiva e di empatia;
10. non è dimostrato, né sempre certo il danno derivante ad un bambino da
un rapporto sessuale con un adulto, meno che mai per un minore che ha
raggiunto la pubertà.
Il negazionismo dell’abuso produce riflessioni, interpretazioni, schemi
teorici o diagnostici che rappresentano una sfida culturale di grande rilievo
per tutti gli operatori e gli studiosi impegnati nel contrasto alla violenza sui
minori, sia perché i contributi di questa corrente hanno raggiunto una forte
rilevanza nell’attuale contesto sociale ed istituzionale e sia perché spesso
contengono al loro interno una mescolanza di: a) contenuti ideologici
funzionali alla cancellazione della verità storica della violenza, al
garantismo inteso come garanzia dell’impunità per l’abusante e alla
negazione della rilevanza del trauma nella vittima e nella società; b)
conoscenze adeguate e sollecitazioni realistiche, che possono essere
distinte dalle finalità ideologiche e vanno apprezzate in quanto tali (per
esempio, l’attenzione, ancorché strumentale, al tema della suggestione
positiva ha portato alcuni autori a fornire indicazioni importanti per
favorire la possibilità dei bambini di portare il proprio contributo
testimoniale, riducendo l’interferenza di domande suggestive, induttive o
anticipatorie; così come il tentativo negazionista di enfatizzare i deficit
della memoria infantile, può sollecitare i professionisti ad una
considerazione approfondita della complessità dei processi di decodifica,
immagazzinamento e recupero dei ricordi infantili).
5. La scomparsa dei fatti: la negazione degli abusi
La tesi basilare della cultura della negazione è la negazione della
violenza sessuale sui bambini come emergenza sociale. “Accetta il mondo
per quello che è veramente e non per come appare”
8
, afferma il monaco
tibetano Dugpa Rimpoce. E il mondo si pone ad un’analisi attenta e
rigorosa, sgombra di pregiudizi illusori, intriso di pratiche di dominio e di
perversione, che rimangono per lo più occultate, ai danni dei più piccoli. I
clinici, attrezzati all’ascolto empatico dei loro pazienti, ben conoscono su
un piano empirico la diffusione dell’abuso sui bambini, essendo abituati ad
accogliere, magari dopo mesi o ad anni di psicoterapia, precisi ricordi di
violenze, latenti o manifeste, avvenute nell’infanzia dei loro pazienti e a
verificare effetti d’integrazione e benessere di straordinario rilievo a
seguito della narrazione ed elaborazione terapeutica di questi ricordi.
Ma è dalle interviste retrospettive che si può avere un quadro
statisticamente realistico e sconvolgente di quali possono essere le
dimensioni della violenza sommersa che pesa sui bambini e sugli
adolescenti. In tali interviste si interroga, sollecitando la confidenzialità e
garantendo l’anonimato, un campione di popolazione giovanile oppure
adulta sui ricordi risalenti all’infanzia e all’adolescenza. Attraverso questo
strumento si possono definire le eventuali violenze ricordate dal campione
e si possono inoltre valutare quante di queste sono state rivelate e
denunciate e quante invece sono state mantenute nel silenzio e nella
8
Dugpa Rimpoce, 500 precetti per una vita felice, Mondadori, Milano, 2006, p. 114.
segretezza. L’intervista retrospettiva non favorisce motivazioni a mentire
negli intervistati: se anche alcuni intervistati potrebbero in casi limitati
collocare nella rappresentazione del proprio passato abusi inesistenti,
questo dato risulterebbe ampiamente compensato da un altro elemento che
può influenzare il risultato della ricerca, nel senso di una sottostima e non
già di un’amplificazione del fenomeno: molti intervistati infatti potrebbero
negare abusi rimossi e dissociati dalla loro consapevolezza.
La ricerca di Diane Russel (1983), condotta negli Stati Uniti ha avuto
un’importanza storica per l’epoca in cui s’è svolta e per l’approfondimento
delle interviste, evidenziando una percentuale del 38% di abusi avvenuti
prima dei 18 anni e del 28% prima dei 14 anni
9
. La ricerca condotta da
Kelly, Regan e Burton in Gran Bretagna (1991) rilevò all’interno del
campione, costituito da 1244 studenti fra i 16 e i 21 anni, che il 21% delle
femmine e il 7% dei maschi dichiararono di aver subito almeno
un’esperienza di abuso consumatosi con contatto fisico
10
. Recentemente
un’importante e rigorosa ricerca retrospettiva compiuta dall’Istituto degli
Innocenti di Firenze
11
su un campione di 2200 donne per valutare
l’incidenza dell’abuso sessuale del maltrattamento in età minorile nella
popolazione femminile adulta in età compresa dai 19 ai 60 anni ha
permesso di stimare che il 5,9% di tale popolazione ha patito una qualche
forma di abuso sessuale, il 18,1% ha esperito sia eventi di abuso sessuale
che di maltrattamenti, mentre il 49,6% ha vissuto una qualche forma lieve,
moderata e grave di maltrattamenti (qualificati come ESI: esperienze
sfavorevoli infantili). Le vittime tendono inevitabilmente a rimuovere e non
già a comunicare la violenza subita. Per quanto riguarda le esperienze di
maltrattamento“chi ne ha parlato l’ha fatto prevalentemente con il partner
e con gli amici (25,9%): i genitori non sono punti di riferimento (con la
madre parla il 5,5% e con il padre l’0,9%)”
12
. Solo una ridottissima
percentuale (2,9%) ha denunciato all’autorità giudiziaria l’abuso sessuale
subito. Se ci si basa sulla percentuale emergente da questa analisi e se si
tiene conto che il numero medio di vittime per gli atti sessuali ex lege n.
66/1997 ricavabile dalle segnalazioni all’autorità giudiziaria (nel triennio
2002-2044) è di 709 minori si può ipotizzare una cifra di 23.633 bambini
vittime in Italia annualmente di abusi sessuali, una cifra che non si discosta
molto da quella - tra i 10.500 e 21.000 - ipotizzata dal rapporto CENSIS
sulla violenza sessuale in Italia (1998).
9
Cfr. D. Russel, “The incidence and prevalence of intrafamilial and extrafamilial sexual abuse of female
children”, in Child Abuse and Neglect. The International Journal, vol. 7, No. 2, 1983, pp. 133-146.
10
Cit. in R. Luberti, D. Bianchi, ...E poi disse che avevo sognato, Ed. Cultura della Pace, Firenze, 1997.
11
Cfr. D. Bianchi, E. Moretti, Vite in bilico. Indagine retrospettiva su maltrattamenti e abusi in età
infantile, Istituto degli Innocenti, Firenze, 2006.
12
D. Bianchi, “I principali risultati della ricerca”, in Vite in bilico…, op. cit., p. 248.
Se si proiettano sulla popolazione italiana i dati emergenti da
un’indagine dell’ISTAT su un campione di 25.000 donne tra i 16 e i 70
anni si può dedurre il dato sconvolgente, in base a cui 6 milioni e 700 mila
donne hanno subito in Italia episodi di violenza fisica e sessuale nel corso
della loro vita, 5 milioni di donne hanno subito almeno un episodio di
violenza sessuale, 3 milioni e 900 mila donne hanno subito almeno un
episodio di violenza fisica e 1 milione e 400 mila possono essere le donne
che hanno subito una qualche forma di violenza prima dei 16 anni
13
.
In una ricerca, condotta nel 1995 da Jérome Laederach dell’Università di
Ginevra, su un campione di 1.116 adolescenti di età tra i 14 e 17 anni,
appartenenti a 68 classi del Cantone di Ginevra, 60 ragazzi (il 10,9% dei
maschi) e 192 ragazze (il 33,8% delle femmine) hanno riportato di aver
subito una situazione qualificabile come abuso almeno una volta nella loro
vita. In una ricerca condotta nel 2002 dall’Istituto di Igiene e Medicina
Preventiva dell’Università di Milano tramite questionario su un campione
di 3 mila studenti (soprattutto maschi) delle scuole superiori con un’età
media di 18 anni e 6 mesi, il 15,4% degli intervistati dichiara di aver subito
un episodio di abuso sessuale. L’11,3% del campione confessa di essere
stato toccato nelle parti intime, il 3% afferma di essere stato costretto a
visionare materiale pornografico, il 2,6% di essere stato costretto a toccare i
genitali di un adulto, l’1,4% di aver dovuto masturbare un adulto, l’1, 6%
di aver subito una penetrazione da parte di un adulto prima dei 18 anni. In
una ricerca, condotta da S.O.S. Infanzia di Vicenza nel 2004-2005 con il
patrocinio dell’Università di Padova e della Regione Veneto, con un
questionario somministrato a 1.058 studenti in 73 classi dell’ultimo anno
delle scuole superiori di Vicenza, il 10,7% dichiara di aver subito violenza
psicologica, il 3,4% violenza fisica, il 4,3% violenza sessuale senza
contatto, il 9,9% con contatto e senza penetrazione, il 2,8% con contatto e
con penetrazione. Tra coloro che dichiarano di aver subito una qualche
forma di abuso sessuale (complessivamente il 17% dell’intero campione) il
79% sono femmine, il 21% maschi, la maggior parte afferma che
l’abusante era conosciuto (l’86%), facendo riferimento prevalentemente a
parenti. Il dato più significativo che emerge dalla ricerca è che solo una
percentuale esigua di coloro che hanno confessato di aver subito violenza
sessuale sono riusciti a chiedere aiuto ad un operatore sociale e scolastico
(6 intervistati su 181 ovvero il 3, 3%) o a rivolgersi ad un’autorità di polizia
o ad un giudice (7 su 181 ovvero il 3,8%). Di questi ultimi 7 ben 4 non
sono stati creduti, mentre 3 sono stati creduti
14
.
13
Cfr. Corriere della sera, martedì 17 aprile 2007.
14
Cfr. Sos Infanzia, “Monitoraggio abusi sui minori”, novembre 2005, Vicenza.
Dati tanto allarmanti finiscono per passare sotto silenzio e scivolare nel
dimenticatoio, invece di suscitare un’ondata di sdegno collettivo, una forte
spinta alla riflessione e all’assunzione di responsabilità, ferme prese di
posizione istituzionali e politiche. Possiamo dunque riprendere e ribadire la
tesi di partenza. È necessario, anche se mentalmente impegnativo, prendere
atto di due penose verità: a) l’abuso sessuale sui minori è un fenomeno che
ha dimensione endemiche nella nostra cultura; b) nonostante le sue
dimensioni massicce, il fenomeno è destinato per molti aspetti a restare
sommerso ed impensabile. Può risultare ancora più arduo assumere una
posizione di accettazione consapevole (e non rassegnata) della seconda
verità più ancora che della prima.
6. Le false accuse: da problema clinico ad argomento ideologico
Nell’esame dei casi specifici, l’ipotesi della falsa accusa va sempre presa
rigorosamente in considerazione ed esaminata nelle sue diverse varianti
legate al possibile fraintendimento da parte del bambino o dell’adulto che
sostiene la denuncia, alla possibile induzione conscia e inconscia da parte
di un adulto presente nell’ambiente di vita del minore e alla possibile
volontà di mentire del bambino stesso. Le false denunce di abuso
rappresentano una questione clinica e diagnostica, di grande rilievo e a cui
prestare la massima attenzione. Per questo ce ne siamo occupati
15
e
continueremo ad occuparcene. Le false accuse risultano nell’esperienza
degli operatori piuttosto rare tra i bambini in età prescolare (tra l’1,7% e il
2, 7%), mentre tendono ad aumentare negli adolescenti (tra l’8 e il
12,7%)
16
. D’altra parte le false accuse costituiscono sicuramente un
fenomeno fortemente enfatizzato ai fini di negare l’evidenza della
diffusione degli abusi. In una ricerca realizzata in Canada
17
sono stati
analizzati 7.672 casi di maltrattamenti su bambini segnalati ai servizi
sociali: solo il 4% di questi casi era costituito da false denunce. In presenza
di conflitti per l’affido dei figli dopo la separazione, questa proporzione era
più elevata, il 12%. L’oggetto principale delle false denunce era tuttavia la
grave trascuratezza e non l’abuso sessuale.
15
Cfr. C. Foti, N. Bolognini, “Quando i bambini mentono…”, in C. Foti (a cura di), L’ascolto
dell’abuso…, op. cit.
16
Cfr. M. Everson e B. Boat, “False allegations of sexual abuse by children and adolescents”, Journal of
American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 28, 1989, pp. 230-235.
17
Cfr. N. Trocmé, N Bala, “False allegations of abuse and neglect when parents separate: Canadian
Incidence Study of Reported Child Abuse and Neglect, 1998”, Child Abuse and Neglect, n. 29 (12), 2005,
1333-1345.
In molte vicende di rivelazioni infantili di abusi, il mondo emotivo del
bambino si deteriora e si accrescono in lui sofferenza e confusione con esiti
di ritrattazione o di aggravamento della patologia. Spesso il bambino, dopo
aver prodotto un’infinità di comunicazioni verbali, espressive e sintomatiche
relative alla violenza subita, è lasciato solo, abbandonato al proprio conflitto
interno e alle pressioni dell’abusante ed inoltre la madre o gli adulti che
sostengono la sua rivelazione non sono aiutati ad elaborare le proprie
dilaganti ansie e difficoltà a reggere l’impatto con il trauma del bambino.
Queste situazioni diventano casistiche indecidibili dal punto di vista
valutativo e falsi positivi dal punto di vista statistico: in queste situazioni al
danno segue una tragica beffa! Dopo l’espropriazione del corpo e dell’anima
del bambino, si registra anche un’espropriazione della verità ai suoi danni!
I dati relativi alle false accuse non possono inoltre basarsi sulle
archiviazioni e sulle assoluzioni giudiziarie. Non si può considerare il
responso giudiziario come un fondamento di verità clinica e sociale,
confondendo la verità giudiziaria con quella scientifica e dimenticando che
la prima necessariamente deve tenere conto, giustamente ed
inevitabilmente, del parametro delle prove ed inoltre risulta spesso
condizionata vuoi da modalità d’indagine e processuali che tengono assai
poco in considerazione le comunicazioni dei bambini, vuoi dalla scarsa
preparazione psicologica dei giudici. “Anch’io sono un falso positivo! Sono
andato da bambino davanti al giudice a denunciare l’abuso subito da mio
padre, il giudice non mi ha creduto e io sono diventato un falso positivo”
18
,
ha scritto Andrea Coffari. Anche se il bambino abusato di ieri è cresciuto ed
è oggi diventato adulto, avvocato e padre di famiglia, anche se ha
mantenuto e ha reso più credibile la propria testimonianza infantile con la
propria maturazione e la propria testimonianza autobiografica
19
,
statisticamente rimane un soggetto che ha effettuato una rivelazione
classificata come falsa, in quanto non presa sul serio dalle istituzioni
giudiziarie.
Non è possibile avviare nessun serio discorso scientifico e clinico sulle
false accuse concernenti abusi sessuali sui bambini prescindendo da una
riflessione sulla resistenza sociale, ideologica ed emotiva nei confronti del
riconoscimento dell’abuso sessuale sui bambini. Tale resistenza si manifesta
su piani diversi: attacca e mette in difficoltà coloro che prendono sul serio le
denunce dei bambini; sollecita talvolta i giudici ad archiviare piuttosto che
ad approfondire; invita spesso i periti non solo alla prudenza ma anche
all’opportunismo; tiene in vita pregiudizi scientificamente obsoleti; orienta
18
A. Coffari, “Processo alla famiglia. L’accusa”, in C. Foti ( a cura di), Processo agli adulti, SIE editore,
Pinerolo, 2007, p. 19.
19
Il libro autobiografico di Coffari è uscito con uno pseudonimo: A. Cammarata, Tuo figlio, Andrea,
Pendragon, Bologna, 1999.
correnti di psicologia sperimentale, interessate ad evidenziare in ogni modo
l’incompetenza e la suggestionabilità dei bambini. Il problema delle false
accuse può e deve essere affrontato come problema clinico non solo per
proteggere adulti colpiti ingiustamente da denunce infamanti e distruttive,
ma anche nell’interesse dei bambini coinvolti nella falsa accusa, i quali
subiscono una gravissima forma di violenza e di strumentalizzazione
psicologica. Ma questo compito può essere svolto se contestualmente
vengono mentalizzate e contrastate le pressioni sociali e ideologiche che
puntano ad enfatizzare il fenomeno dei falsi positivi, impedendo un
approccio attento e rispettoso ad ogni vicenda individuale.
La nuova resistenza sociale e culturale al riconoscimento dell’abuso
sessuale ai danni dell’infanzia viene ad esercitare la propria influenza
negativa sugli operatori, aggiungendosi ai condizionamenti psicologici di
sempre, che rendono difficile l’accostamento emotivo e cognitivo alla
sofferenza infantile. Così, nonostante l’indubbia crescita negli ultimi
decenni di una capacità sociale di percepire il fenomeno dell’abuso sessuale
sui minori, permangono nelle istituzioni e nella comunità adulta
atteggiamenti di cecità e di sordità diffusa nei confronti di quei segnali di
malessere infantile, che possono rinviare a situazioni di violenza sessuale;
aumentano spesso la paura e la tendenza alla delega degli operatori di fronte
a casi di presunta violenza su bambini; si rinnovano tendenze a rifiutare
attenzione ed ascolto a processi di rivelazione, soltanto perché non appaiono
immediatamente sostenuti da riscontri evidenti.
“È evidente - scrivono Malacrea e Lorenzini - che se un falso credito dato
a un sospetto abuso darà inizio ad un iter che passerà la situazione a più
setacci, a maglie sempre più fini (sia attraverso percorsi clinici che
giudiziari), con alte probabilità di correttivi in itinere che arriveranno a
determinare un giudizio finale corretto, quando un presunto abuso suscita
istintivo discredito succederà l’opposto. Esso verrà infatti lasciato cadere
prima di ogni vaglio approfondito e quindi non potrà trovare quei correttivi
che potrebbero orientare realisticamente il giudizio. Sappiamo del resto
come sia tutt’altro che raro che situazioni di abuso abbiano alle spalle,
prima di imporsi all’attenzione degli operatori, storie di mesi o anche anni
in cui segnali più deboli erano stati lasciati cadere con processi decisionali
basati su valutazioni approssimative o istintive. Date queste condizioni, la
corrente scientifica che avvalora una giusta prudenza in vista del rischio di
creare falsi positivi rischia di trasformarsi in cortocircuito che spinge a
“diffidare” comunque, senza possederne analiticamente le ragioni. E
quindi, in definitiva, si arriva ad incrementare il numero di falsi negativi,
pur nello sforzo in buona fede di evitare i falsi positivi”
20
.
7. Radici emotive e riferimenti ideologici del negazionismo
“Gli abusi non possono esistere o non sono così diffusi perché il mondo
non può essere così cattivo ed incontrollabile”, “Quell’indagato non può
essere colpevole, perché è troppo simile a noi … la sua immagine positiva
è per noi consolidata”, “Non può essere che tanta violenza possa colpire
bambini così piccoli”: le radici emotive del negazionismo sono legate al
bisogno, presente in maggiore o minore misura nella mente di ogni
membro della società, di mantenere una rappresentazione idealizzata della
comunità e della mente umana, negando le dinamiche di sadismo,
perversione e follia circolanti sul piano sociale e psichico.
Il negazionismo si fonda inoltre sull’esigenza emotiva diffusissima di
togliere lo sguardo dalla realtà di impotenza e di potenziale rischiosità che
caratterizza la condizione infantile e più in generale la condizione umana. Il
dolore dei bambini abusati non è un bello spettacolo! Il soggetto
traumatizzato rappresenta, personifica, evoca la fragilità e la debolezza
della condizione umana, ricordandoci quanto possa incombere sulla nostra
esistenza il cambiamento imprevedibile, estremo e distruttivo. Esistono poi
radici psicologiche ed emotive di altra natura: nella nostra cultura la
sessualità tende ad essere esaltata in quanto tale (soprattutto
nell’immaginario maschile), indipendentemente da una riflessione sulle sue
conseguenze ed indipendentemente dagli aspetti relazionali ed affettivi,
connessi al rapporto sessuale. La cultura e l’etica della mortificazione della
carne sono state accantonate e sopravanzate dalla cultura e dall’etica della
glorificazione del corpo
21
. Su questo terreno si possono sviluppare simpatie
emotive, consce ed inconsce, verso la ricerca del piacere sessuale come
valore sempre e comunque positivo e tendenze a negarne le conseguenze
deleterie.
Il negazionismo dispone di supporti ideologici espliciti ed impliciti. Tra i
primi il più evidenziato è quello del garantismo per gli indagati e gli
imputati. Su questo principio indiscutibile ci può essere soltanto piena
condivisione e richiesta di coerenza: il garantismo deve essere esteso al
rispetto dei diritti formali e sostanziali dei bambini coinvolti nel processo.
Come si può per esempio pretendere di privare completamente il cittadino
bambino del suo diritto di essere informato sul significato dell’audizione
20
M. Malacrea, S. Lorenzini, Bambini abusati. Linee-guida nel dibattito internazionale, Cortina, Milano,
2002, p. 313.
21
Cfr. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 1983.
protetta che lo coinvolge? Come può essere ancora negato, come avviene
nella stragrande parte dei casi, il diritto all’assistenza e alla cura dei
bambini chiamati a rendere testimonianza?
Ma l’ideologia più profonda del negazionismo è implicita: sotto la
copertura di teorie scientifiche o presunte tali viene rilanciato l’antico
stereotipo del bambino tendenzialmente
bugiardo e babbeo,
cognitivamente incompetente anche per ciò che concerne le esperienze e le
sensazioni corporee (“Per un bambino - afferma Gulotta - il fastidio dato da
una supposta piuttosto che da un dito nel sedere è difficile da decodificare
nell’un caso come fatto di tipo terapeutico, nell’altro di altro significato”
22
).
Viene proposta, al di là di una valutazione psicologica specifica,
l’immagine di un bambino, completamente privo di una soggettività
autonoma, incapace di interazioni attive e pronto ad introiettare
acriticamente le informazioni, anche quelle implicite, contenute nelle più
innocenti domande di qualsiasi adulto lo intervisti, dal momento che “ogni
adulto è per un bambino un soggetto autorevole”
23
. Questo bambino, anche
in assenza di una patologia specifica della propria psiche o del proprio
ambiente relazionale, risulta sempre e comunque compiacente, al punto tale
da manipolare senza rendersene conto la propria narrazione e di
conseguenza la propria memoria e la propria idea di se stesso, al punto tale
da costruire e mettersi a raccontare violenze mai avvenute, convincendosi
nel tempo di fatti precisi e circostanziati, in realtà inesistenti.
Si delinea la rappresentazione di un bambino esattamente contrario al
bambino competente ed attivo che viene descritto dalla psicopedagogia
contemporanea. È un bambino talmente dipendente e bisognoso nei
confronti dell’adulto da non desiderare altro che compiacere quest’ultimo.
È un bambino che non manifesta alcuna resistenza alla suggestionabilità,
che non è in grado di perseguire alcuna strategia propositiva autonoma.
Inevitabilmente “il bambino asseconda l'intervistatore e racconta quello
che lo stesso si attende, o teme, di sentire”
24
; ogni desiderio o ogni
angoscia di qualsiasi intervistatore adulto tracima inevitabilmente nella
mente del bambino che è talmente passivo e manipolabile da non avere
nessuna speranza di veder riconosciuta nelle proprie espressioni verbali o
extraverbali una qualche capacità di trasmettere la propria autonoma
volontà comunicativa.
Un altro caposaldo ideologico del negazionismo è la rappresentazione
della famiglia come microcosmo capace di garantire accudimento e
sicurezza ai bambini, protetti da genitori attenti, che si prendono cura dei
22
G. Gulotta, relazione al Convegno “Ascolto dell’abuso e abuso nell’ascolto”, Centro Studi Hansel e
Gretel, Torino, 24 febbraio 2001.
23
Cfr. la già richiamata sentenza della Cassazione penale, 17 gennaio - 8 marzo 2007 n. 9817.
24
Cassazione penale, 17 gennaio - 8 marzo 2007 n. 9817, cit. .
figli in quanto carne della loro carne. È una rappresentazione decisamente
smentita da numerosi studi e dati statistici, ma talmente radicata nel corpo
sociale da condizionare la stessa comunità scientifica. La teoria emergente
che afferma la falsità di una gran parte delle denunce di abusi sessuali
intrafamiliari, pur non basandosi su nessuna ricerca scientificamente
fondata, è destinata a trovare consenso, riattivando l’illusione della
famiglia come luogo sicuro e rilanciando lo stereotipo del genitore buono,
ma incompreso in quanto povero o ingiustamente accusato.
8. Una riflessione storica
Non è un caso che sul finire del Novecento si verifica una contingenza
storico-culturale che produce uno scossone importante nel muro di silenzio,
di evitamento e di insensibilità che circondava e circonda il fenomeno
dell’abuso emotivo, fisico e sessuale sui bambini. “La storia dell’infanzia –
ha scritto Ida Magli – è stata in Europa una storia di sopraffazione, di
sofferenza, di sfruttamento, di violenza di tutti i generi: quella sessuale ne
faceva parte ‘normalmente’, così come ha sempre fatto parte della storia di
tutti gli oppressi, delle donne e degli schiavi. Essendo il sesso la forma
primaria di possesso, la dominazione attraverso il sesso ha sempre
accompagnato il rapporto tra padrone e schiavo, fra dominatore e
dominato, fra vincitore e vinto, fra potente e suddito”
25
.
Il Novecento è un secolo nel quale, su piani e contesti diversi, si
registrano vari e complessi processi di emancipazione nei confronti delle
gerarchie sociali e generazionali dominanti da parte di numerose
soggettività sociali: quella femminile, quella dei giovani, degli studenti,
degli intellettuali, quella di diverse identità etniche e nazionali. Bisogni di
libertà, di conoscenza, di autodeterminazione politica, mentale e sessuale di
queste soggettività si scontrano con le dinamiche di potere prevalenti nelle
istituzioni e nei sistemi sociali con effetti di trasformazione e di
modernizzazione. Il Novecento è inoltre il secolo nel quale si sviluppano
importanti processi di critica e smascheramento di varie forme di
sopraffazione e di dominio dei più forti sui più deboli: crollano i sistemi
ideologici di negazione dei lager, delle guerre imperialiste, del socialismo
reale, del controllo autoritario delle istituzioni… È il secolo nel quale si
attivano impegni di demistificazione nei confronti delle articolate e
persuasive forme di manipolazione del consenso a cui varie strutture di
potere ricorrono per coprire la violenza.
25
I. Magli, “L’antica violenza contro i bambini”, la Repubblica, 20 settembre 1984.
Il Novecento è il secolo segnato nei suoi albori culturali da una nuova
attenzione, con la nascita della psicoanalisi, alla psicologia infantile, ai suoi
effetti evolutivi e alla sua presenza viva della mente dell’adulto e nel
contempo è un secolo dove si avvia, pur contraddittoriamente, un processo
rivoluzionario nel riconoscimento dei bisogni e dei diritti del bambino
26
.
Sul piano dell’analisi del trauma, compaiono gli studi anticipatori di Janet e
di Kardiner. In questa cornice culturale, dopo secoli di radicale
disattenzione alla tematica del trauma, negli anni ’70 in America e negli
anni ’80 in Europa l’abuso ai danni dell’infanzia comincia lentamente e
faticosamente ad uscire dal chiuso delle pareti domestiche o istituzionali
dove tende a consumarsi. Il tema inizia a fare la propria comparsa sui
media e nell’agenda delle istituzioni sociali. Tuttavia l’olocausto dell’abuso
sulle donne e sui bambini, con i suoi scenari, infinitamente differenziati e
sfumati, ma forse più impensabili ed indicibili di quelli dei lager e
assolutamente non circoscritti da un visibile filo spinato, rimane comunque
un fenomeno in gran parte sommerso e l’impegno a sottrarlo dalla notte
millenaria di rimozione e di negazione, in cui resta avvolto, per poterlo
contrastare ed affidare alla coscienza e alla memoria, risulta assai più
difficile di quanto non sia accaduto per altre espressioni di violenza
storicamente documentate.
Nel 1962 viene definita diagnosticamente da Kempe la sindrome del
bambino battuto. Negli anni ’80, in America, la già citata ricerca della
Russel documenta che, su un campione casuale di 930 donne, una su
quattro era stata stuprata ed una su tre aveva subito una qualche forma di
violenza sessuale. Questa si caratterizza come sommersa: solo il 2% degli
abusi intrafamiliari e il 6% di quelli extrafamiliari era stato denunciato. Per
primi i gruppi dei reduci dal Vietnam e poi il femminismo danno dignità
alla sofferenza post-traumatica. Successivamente il DSM III legittima
nosograficamente, nel mondo scientifico internazionale, attraverso la
definizione del Disturbo post-traumatico da stress, la problematica di
soggetti molto diversi tra loro, ma accomunabili da una sintomatologia,
leggibile attraverso precisi criteri diagnostici e riconducibile all’impatto
brusco e sconvolgente, con circostanze lesive e soprattutto con relazioni ed
interazioni violente imposte da altri esseri umani. Si comincia inoltre ad
abbandonare l’idea semplicistica e difensiva in base a cui i bambini
potrebbero rispondere ad eventi spaventosi e traumatici “soltanto con un
disagio temporaneo”, senza strutturare preoccupanti reazioni post-
26
Per quanto riguarda i diritti, si pensi per esempio alla Dichiarazione dei diritti del fanciullo (Società
delle Nazioni, Ginevra, 1925) e alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (ONU, New
York, 1989).
traumatiche
27
.
9. Un nuovo codice comunicativo tra adulti e bambini
Va contrastata nettamente la lettura storica che alcuni danno degli ultimi
decenni. Non è vero che negli anni ’80 e ’90 si sviluppa una percezione
isterica nei confronti del fenomeno dell’abuso. In ogni movimento teso alla
rivelazione di una verità sepolta e alla contestazione di una oppressione
consolidata si possono senza dubbio verificare degli eccessi, ma ciò che
sostanzialmente capita negli ultimi decenni del secolo scorso è la crescita,
pur conflittuale, nella comunità adulta di una nuova sensibilità emotiva -
stigmatizzata come viscerale dal negazionismo - nei confronti delle
comunicazioni dei bambini. Sul piano sociale ed educativo si verifica una
crisi dei codici comunicativi autoritari e adultocentrici, dominanti nel
periodo precedente in famiglia e nelle istituzioni, e un lento e faticoso
emergere di un nuovo codice basato sul rispetto dei sentimenti nell’ascolto
dei bambini. Si tratta di un codice che tende a mettere a proprio agio i
soggetti in età evolutiva, favorendo la comunicazione da parte loro di
disagi piccoli e grandi, e tende a ridurre le aree tabuizzate della
comunicazione tra adulti e minori, ottimizzando in generale la circolazione
delle informazioni nel dialogo tra le generazioni e favorendo in specifico la
rottura di segreti e di silenzi funzionali agli abusi. Dunque ciò che
storicamente si registra alla fine del secolo scorso è un nuovo approccio
emotivo degli adulti alle questioni minorili, è l’avvio di un processo di
attivazione delle competenze emotive degli operatori, mentre la scienza
stessa comincia contestualmente ad occuparsi di un oggetto da sempre
negletto: le emozioni
28
.
L’aumento delle denunce relative ad abusi sessuali è dipeso storicamente
da diversi fattori, fra cui l’attenuazione dell’inibizione comunicativa che
pesava sulle piccole vittime e la riduzione dell’inconsapevolezza da parte
di genitori e di operatori e non già da un eccesso di allarmismo sociale sul
problema. Non è vero che la nuova sensibilizzazione sui temi del
maltrattamento ha favorito e favorisce un atteggiamento degli adulti di tipo
induttivo: essa consente invece agli adulti di avere in mente più ipotesi (tra
27
W. Yule, S. Perrin, P. Smith (2000), Il Disturbo Post-traumatico da Stress nei bambini e negli
adolescenti, in W. Yule (a cura di), Disturbo Post-traumatico da Stress. Aspetti clinici e terapia, Mc
Graw Hill, Milano, pp. 21 e sgg.
28
Cfr. H. Gardner. (1984), Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano,
1987; P. Salovey, J. Mayer, “Emotional Intelligence”, in Imagination, Cognition and Personality vol. 9
(3), 1990, pp. 185-211, 1989-90; J. Le Doux, (1996), Il cervello emotivo, Baldini & Castaldi, Milano,
1998; D. Goleman (1995), L’intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano, 1996.
cui quella del maltrattamento assieme ad altre), mentre senza interventi di
sensibilizzazione genitori ed operatori tendono ad escludere a priori
l’ipotesi della violenza. Non è vero che le campagne di prevenzione
inducono fobie nei confronti del contatto fisico con i bambini o favoriscono
forme di ansia incontenibile capace di portare a percezioni distorcenti, se
non in situazioni eccezionali e gravemente patologiche. Tali campagne
tendono a fornire agli adulti strumenti informativi su un pericolo realmente
consistente sul piano sociale e tendono ad aiutare i bambini ad aumentare le
proprie competenze nell’analizzare le situazioni di rischio e nel
comunicarle subito agli adulti significativi, diventando inoltre consapevoli
della propria autoefficacia e capacità di mettere in atto comportamenti
difensivi in caso di bisogno
29
.
10. L’incrinarsi di un equilibrio
La violenza sui bambini è certamente un fenomeno che crea squilibrio
sociale perché minaccia direttamente e brutalmente l’infanzia, un bene
prezioso che costituisce il futuro e garantisce la sopravvivenza della
comunità. Ma paradossalmente la violenza sui bambini è anche una prassi
che consente di mantenere un equilibrio familiare e sociale. Come la
riduzione dei beni, degli investimenti e delle spese a favore dei soggetti
minorenni, meno tutelati politicamente e socialmente, può risultare una
modalità di reazione e sopravvivenza della comunità adulta di fronte alle
sue crisi economiche
30
, così l’abuso sui bambini può rappresentare una
forma patologica e patogena, ma efficace, dell’omeostasi di tanti sistemi
familiari ovvero una modalità attraverso la quale è possibile che i genitori
tendano a scaricare sul soggetto più fragile il peso delle loro frustrazioni e
delle loro difficoltà. Non pochi adulti, per tutelare i propri equilibri
psicologici e relazionali, narcisistici o perversi, hanno bisogno di impostare
relazioni strumentali e violente o comunque fortemente trascuranti ai danni
dei più piccoli e di salvaguardare nel contempo una facciata di adesione
all’ideale sociale che prescrive il rispetto dei bambini. Lo squarcio di luce
sul dramma della violenza domestica ai danni delle donne e sulla verità
dell’abuso emotivo e sessuale (extra ed intrafamiliare) nei confronti dei
bambini ha sollecitato e sollecita interventi di protezione sociale e
iniziative giudiziarie che hanno finito per mettere in discussione
29
Cfr. A. Pellai, Le parole non dette, FrancoAngeli, Milano, 2000.
30
“Le indagini statistiche sulla povertà segnalano che in Italia, come in altri paesi, la popolazione dei
minorenni rappresenta il gruppo sociale che più soffre la mancanza di beni di consumo privati e
collettivi” (L. Bobba, L. Campiglio, “Elezioni, delega alle madri per dare voce ai più piccoli”, Corriere
della sera, 21 marzo 2004, p. 21).
un’omeostasi millenaria. A fronte dell’incrinarsi di una tale omeostasi non
poteva non prodursi un tentativo di riequilibrio in senso adultocentrico. Il
negazionismo rientra pienamente in questo tentativo.
L’emersione degli ultimi decenni - per quanto ancora embrionale - del
problema dell’abuso sessuale sui bambini, ha determinato quello che i
sociologi definiscono un effetto backlash, un effetto contraccolpo che ha
portato per reazione ad enfatizzare l’attenzione, in modo non realistico, sul
fenomeno delle false accuse. Quando i processi sociali di cambiamento
minacciano e intaccano i privilegi di un gruppo dotato di un potere
consolidato, la reazione di questo gruppo a tali processi è direttamente
proporzionale alla consistenza dei suoi interessi colpiti e alla forza dei
privilegi messi in discussione. In questo modo è possibile spiegare per
esempio lo scatenarsi in America Latina di un’iniziativa golpista finanziata
da un gruppo di latifondisti, minacciati da un’incisiva riforma agraria di un
governo democratico, oppure la reazione politica e sociale di tipo
conservatore che si è sviluppata in Italia con l’emersione del problema
della corruzione pubblica a seguito delle inchieste giudiziarie di
Tangentopoli.
Questa dinamica conflittuale può aiutare a comprendere la
controffensiva di coloro che sono stati colpiti nel proprio potere
psicologico e sessuale e si sono sentiti minacciati dall’avanzare di una
sensibilizzazione sociale in materia di maltrattamento all’infanzia e di una
cultura del dialogo e della comunicazione tra le generazioni. Un libro assai
documentato di Pope e Brown
31
ha dimostrato che la comparsa (in
particolare negli Stati Uniti a partire dagli ultimi decenni del secolo
trascorso) di un nuovo soggetto sociale, abbia condizionato il dibattito
scientifico sulla questione dell’abuso sessuale sui minori. Le basi sociali
del negazionismo sono in effetti rappresentate da questo nuovo soggetto
comparso sulla scena sociale negli ultimi due decenni del secolo scorso
negli Stati Uniti e più recentemente in Europa: gli imputati di reati sessuali
ai danni di minori, con uno specifico interesse alla propria autodifesa e con
una forte capacità di negoziazione giuridica e sociale, sono diventati,
direttamente o indirettamente, un importante committente di difese e
perizie legali, di pressioni giornalistiche, di ricerche sperimentali.
Il silenzio delle vittime, l’insensibilità dei testimoni e la negazione degli
autori sono elementi assolutamente essenziali alla determinazione e alla
perpetuazione dell’abuso sui bambini. Rispetto a questi elementi negli
ultimi decenni del secolo scorso compaiono alcune tendenze sociali
importanti, tuttora attive: a) innanzitutto si riduce l’incapacità di ascoltare
l’infanzia, s’attenua la cecità e la sordità delle istituzioni sociali nei
31
K. Pope e L. Brown (1996), Ricordi di antiche violenze, Mc Graw Hill, Milano, 1999.
confronti degli indicatori del malessere traumatico dei bambini: in altri
termini diminuisce l’indifferenza dei testimoni e di conseguenza il silenzio
delle vittime; b) cresce la pressione sociale che chiede alle istituzioni socio-
sanitarie e giudiziarie di riconoscere e di affrontare le situazioni di violenza
ai danni delle donne e dei bambini; ma d’altra parte all’aumento della
domanda di aiuto non corrisponde un aumento della capacità di risposta da
parte degli operatori delle suddette istituzioni che si trovano a dover
affrontare casistiche più numerose e complesse in condizioni di lavoro che
per varie ragioni spesso peggiorano invece di migliorare; c) dopo una fase
di disorientamento gli imputati di abusi e maltrattamenti su minori sono in
grado di organizzare la loro difesa in termini più aggressivi ed efficaci sul
piano legale, sociale e culturale.
11. La presunta inconoscibilità dell’abuso e il ruolo dello psicologo
clinico
La comunità scientifica è sempre stata sensibile alle committenze e agli
interessi sociali che premono nell’orientare gli indirizzi, le finalità e i
risultati della ricerca. Per la pressione ideologica e sociale degli imputati di
reati sessuali sui bambini nasce, nell’ambito della psicologia forense, una
corrente di pensiero caratterizzata da un atteggiamento teorico e
metodologico in base a cui l’abuso sessuale sui bambini a ben vedere
risulta inconoscibile ed indimostrabile. Vengono tagliati i nessi possibili
tra il quadro clinico e il quadro diagnostico, tra ciò che è osservabile nel
presente e ciò che è ipotizzabile nel passato. I clinici che diagnosticano un
trauma sessuale vengono accusati a priori di un’impostazione
verificazionista cioè di una tendenza ad assumere l’ipotesi dell’abuso non
già per valutare se regge ai tentativi di falsificazione, bensì per verificarla a
tutti i costi. Ma è possibile respingere al mittente l’accusa di perseguire
insistentemente una posizione verificazionista: è questa corrente di
pensiero che tende costantemente a verificare in ogni caso e in ogni modo
che l’abuso sessuale non è dimostrabile. Nella logica di questa scuola di
pensiero l’abuso è sempre e comunque appartenente ad un noumeno
irraggiungibile: non solo nessun sintomo, osservabile nel bambino e
considerato isolatamente, risulterebbe specifico (cosa indubbiamente vera
per la gran parte degli indicatori), ma nessun quadro complessivo, nessun
insieme coerente di sintomi/comportamenti/atteggiamenti emotivi/
dichiarazioni/espressioni ludiche e grafiche potrebbe mai rinviare in
maniera rigorosa e specifica ad un’ipotesi di trauma sessuale.
La logica clinica invece non può rassegnarsi all’inconoscibilità di una
realtà sintomatologica. Il clinico infatti mira, se il materiale lo consente, a
ricercare nessi causali che possono collegare il quadro osservato ad eventi o
cause patogene. Nei casi di presunto abuso la situazione spesso può
risultare talmente complessa da non consentire diagnosi, ma in altre
situazioni le esperienze compiute, i dati racconti e le metodologie
impiegate nella diagnosi consentono al clinico di ipotizzare adeguatamente
nessi tra il quadro esaminato e una determinata ipotesi diagnostica.
Nell’ottica del negazionismo si tende a puntare ogni sforzo sulla verifica
dell’ipotesi di partenza (quella in base a cui l’abuso non esiste) e, peraltro,
una volta ritenuta falsificata l’ipotesi dell’abuso, non ci si impegna a
definire una coerente e precisa ipotesi alternativa innanzitutto nell’interesse
del bambino, ma anche, in subordine, nell’interesse di una più precisa
definizione forense dell’accaduto. Quando uno psicologo clinico falsifica
un’ipotesi diagnostica, è interessato se possibile a ricercarne un’altra nella
logica che persegue la tutela della salute del paziente, al quale poco importa
della falsificazione di un’ipotesi se non ne emerge un’altra che contribuisca
a farlo stare meglio.
Va ribadita dunque l’opportunità che lo psicologo, incaricato di una
valutazione sulla presunta vittima di abuso, sia uno psicologo clinico, che
accetti ovviamente le procedure, le regole e le richieste del contesto
giudiziario, ma che porti in questo contesto le preoccupazioni e le finalità
legate alla presa in carico e al compito di aiuto nei confronti della
sofferenza umana. Scrive Capri che “l’osservazione clinica è alla base del
lavoro peritale” e che “ non è possibile fare valutazioni diagnostiche non
tenendo in considerazione la persona, la sua storia…”
32
. Lo psicologo
clinico, impegnato nell’accertamento peritale, s’impegna a non gettare nel
mare magnum dei falsi negativi situazioni che meritano ascolto ed
approfondimento, ma d’altra parte non assume atteggiamenti aprioristici
nell’approccio al caso specifico: egli cerca, tenendo la mente aperta, di
stabilire nessi tra tutto il materiale anamnestico, clinico, documentale
disponibile e le cause della sofferenza di quel bambino, cause che, nel caso
di una denuncia per presunto abuso sessuale, possono essere le più varie:
una sofferenza pregressa su cui si è innestata una violenza, una sofferenza
pregressa su cui non si è innestata una violenza, un abuso episodico oppure
prolungato, una situazione di manipolazione psicologica, una crisi che ha
prodotto la volontà di mentire del bambino, ecc… Il clinico, se consulente
tecnico di parte, non sceglie la verità del proprio cliente e il suo
atteggiamento non parte comunque da presupposti ideologici. Chi lavora in
32
P. Capri, “La metodologia psicologica in ambito forense. Attendibilità clinica e giudiziaria”, in AIPG
Newsletter, n. 28, 2007.
campo clinico con i minori a disagio impatta con le fonti più varie del
malessere dei bambini, con cause molteplici e differenziate del disagio ed è
sollecitato a confrontarsi in contesto psicologico-forense con una varietà di
ipotesi relative alla genesi della sofferenza del bambino.
12. Abuso della scienza e scienza dell’abuso
Negli Stati Uniti dove s’è sviluppato in anticipo rispetto all’Europa un
movimento per la protezione dei bambini dalla violenza e dove il recupero di
ricordi di violenze infantili da parte di adulti ha dato vita ad aspre contese
giudiziarie per il risarcimento dei danni, la reazione degli adulti denunciati è
stata particolarmente forte, non solo sul piano legale ma anche sul piano
ideologico. Per iniziativa di genitori accusati di aver abusato dei loro figli
nasce la Fondazione per la Sindrome del Falso Ricordo che riesce
gradualmente nell’impresa di accreditare nel mondo accademico e nel
confronto giudiziario questo discutibile strumento diagnostico, con il quale
si può tentare di attaccare il fondamento di qualsiasi testimonianza relativa a
ricordi infantili. Si sviluppa una corrente di pensiero negazionista che porta
indubbiamente forti sollecitazioni al dibattito scientifico, spesso
evidenziando tuttavia uno stile ideologico per la pressione della
committenza da cui deriva: la presunzione di sventolare la bandiera della
scienza, la presentazione come indiscutibili categorie cliniche o sindromi
che non sono state validate scientificamente: per esempio la false memory
sindrome ovvero sindrome che sarebbe provocata dall’innesto nella mente
di un soggetto di un ricordo infondato; la iatrogenetic post traumatic
syndrome ovvero sindrome traumatica che sarebbe derivante da interviste a
cui il bambino è stato sottoposto; o, ancora, la sindrome di alienazione
parentale che porterebbe le madri a voler eliminare la figura del padre dalla
vita del figlio, costruendo a questo fine false accuse di abuso sessuale. Si
tratta di sindromi che non appartengono affatto al patrimonio dei manuali
statistici internazionali dei disturbi mentali quali il DSM IV e l’ICD-10.
La sindrome del falso ricordo rischia di essere utilizzata per squalificare
aprioristicamente le tracce mnemoniche della diffusa violenza ai danni
dell’infanzia
33
, prendendo spunto dall’inevitabile imprecisione dei ricordi
recuperati. Al riguardo è utile riportare il pensiero di M. Steinberg, nota in
tutto il mondo psichiatrico per i suoi studi sulla dissociazione e di M.
Schnall: “La verità è che la maggior parte dei ricordi di abuso sono
sostanzialmente veri, sebbene possano essere inaccurati rispetto a
particolari dettagli. I sopravvissuti che recuperano i ricordi dell’abuso
33
Cfr. K. Pope e L. Brown (1996), op. cit.
possono non ricordare necessariamente i dettagli di quello che è accaduto
come le date per esempio. Possono anche ricamarci sopra (sebbene forse
non consapevolmente). (…) Poiché quello che i sopravvissuti
sperimentavano nell’infanzia era per loro troppo penoso da ricordare,
alcuni dei ricordi recuperati possono essere versioni ricostruite di una
storia sostanzialmente vera. Sebbene i ricordi degli eventi originari
possano subire delle distorsioni, il fatto che i sopravvissuti ricordino
l’essenza della questione è in definitiva quello che conta”.
Per quanto riguarda la sindrome di alienazione parentale, va ricordato il
“Rapporto sulla Violenza in Famiglia”
34
, nel quale l’Associazione degli
Psicologi Americani (APA) invita a valorizzare le dichiarazioni dei
bambini e a contrastare i pregiudizi sulle madri: “Sebbene non ci siano dati
che sostengano il fenomeno della cosiddetta sindrome da alienazione
parentale, in cui le madri vengono biasimate perché interferirebbero con
l’attaccamento dei figli al padre, il termine viene tuttora usato da alcuni
periti e dai tribunali per ignorare le paure dei bambini in situazioni ostili e
di abuso psicologico” e ancora: “I tribunali frequentemente minimizzano il
danno che ha per i bambini assistere alla violenza tra i loro genitori e a
volte sono riluttanti a credere alle madri. Se la corte, valutando
l’affidamento, ignora la storia di violenza come contesto al comportamento
della madre, (quest’ultima) le apparirà ostile, non cooperante o
mentalmente instabile”.
Evidentemente non può essere sottovalutato il rischio di situazioni in cui
le madri vogliano in effetti liquidare la figura paterna attraverso tentativi di
induzione di false accuse di abuso sessuale sui figli nei confronti del padre.
Per i casi di induzione possono essere utilizzate categorie diagnostiche tra
le quali possiamo citare: il disturbo paranoide di personalità (diagnosticato
per esempio in un padre che aveva scritto dettagliatamente la presunta
rivelazione di un abuso ricevuta dal figlio, che tuttavia confermava solo
parzialmente l’accusa, entrando sul piano narrativo e soprattutto emotivo in
forti contraddizioni); il disturbo delirante di personalità (per esempio in
una madre che non riusciva ad esprimere in alcun modo un pensiero
riflessivo e critico capace di formulare ipotesi alternative all’abuso); la
sindrome di Munchausen per procura (per esempio in madri con una
tendenza a negare la propria sofferenza e a proiettarla in modo distorcente
sul figlio). L’induzione di una falsa denuncia rappresenta un atto folle e
distruttivo che distorce violentemente la realtà. Ma non c’è bisogno di
costruire nuove e strumentali categorie diagnostiche, tutt’altro che validate.
La sindrome di alienazione parentale si è rivelata un contenitore
34
American Psychological Association Presidential Task Force on Violence and the Family, Violence and
the family, Washington, 1996.
diagnostico, dove vengono buttate con larga approssimazione casi di
madri stigmatizzate e non comprese, nella loro vicenda di sottomissione e
di sofferenza e situazioni di possibile abuso che non vengono approfondite.
Nei casi di presunta induzione e manipolazione dei bambini occorre
piuttosto sollecitare i clinici a ricorrere in modo rigoroso ed approfondito
all’accertamento di precise categorie diagnostiche.
13. Interviste suggestive e costruzione del falso ricordo
Il negazionismo tende ad insistere sulla possibilità di ricondurre qualsiasi
testimonianza, soprattutto infantile, di una violenza subita ad un possibile
falso ricordo ovvero ad un’alterazione inconsapevole della capacità
rappresentativa e della memoria del bambino. Il tutto potrebbe nascere da
semplici domande mal poste, rivoltegli da intervistatori magari con ottime
intenzioni, ma ignari degli accomodamenti cognitivi che le loro interviste
inadeguate produrrebbero sui soggetti intervistati. In quest’ottica, siccome
nel corso di qualsiasi vicenda in cui è comparsa una rivelazione di abuso è
sempre possibile rintracciare una qualche intervista del bambino da parte di
un adulto, diventa anche possibile tentare di dimostrare che quel colloquio
e quel dialogo, sicuramente mal condotto in qualche sua parte, può aver
determinato nel bambino la costruzione di una falsa memoria. In realtà
attraverso un’approfondita valutazione psicologica della narrazione e della
personalità del piccolo testimone, delle sue reazioni emotive e dei suoi
meccanismi difensivi, è possibile distinguere un racconto contenente falsi
ricordi da quello corrispondente ad eventi vissuti direttamente con
autentico coinvolgimento emotivo.
Molto spesso negli attacchi rivolti ai consulenti e agli psicologi nel corso
dei processi si afferma che la polizia, la mamma, gli operatori hanno rivolto
al bambino domande suggestive, sollecitando risposte basate sulla
compiacenza e che tutto questo avrebbe finito per generare nell’intervistato
una deformazione del ricordo originario o addirittura la costruzione dal
nulla di un nuovo ricordo. Questa tesi viene contestata da Di Blasio e
Vitali
35
che sostengono, attraverso un’accurata analisi della letteratura
internazionale, che non si è mai riusciti a dimostrare in chiave
sperimentale la possibilità di instillare un falso ricordo se non riguardante
un episodio in qualche modo plausibile, familiare per il soggetto su cui
s’intende effettuare l’esperimento. Non è dunque assolutamente legittimo
affermare che le domande induttive o suggestive abbiano di per sé il potere
35
Cfr. P. Di Blasio, R. Vitali, “Falsi ricordi e suggestionabilità”, in Maltrattamento all’infanzia, vol. 6
(1), 2004, p. 73-96.
di costruire un falso ricordo di un episodio implicante un contatto corporeo
e violento in assenza di psicopatologia diagnosticabile o di intenzionalità
suggestiva di colui o colei che pone le domande. La suggestionabilità
interrogatoria è fenomeno che merita la massima attenzione ma non può
diventare un colpo di teatro pseudoscientifico per liquidare le testimonianze
dei bambini.
La ricerca sul rapporto fra suggestionabilità e falso ricordo è stata
sollecitata da un celebre esperimento compiuto nel 1993 da Elena Loftus: si
trattava di persuadere, con la collaborazione della famiglia, un ragazzo di
15 anni di nome Chris e poi altri 24-25 soggetti di aver vissuto nella
propria infanzia un episodio in realtà mai accaduto. Gli sperimentatori si
erano fatti raccontare dalle famiglie dei ricordi veri, episodi effettivamente
capitati nell’infanzia di questi soggetti sperimentali, per poter esercitare su
di loro una pressione convincente. Poi avevano inventato un episodio mai
accaduto nella vita di questi adolescenti o giovani adulti: l’essersi persi in
un centro commerciale, quando questi soggetti avevano 5 anni. La tecnica
dell’esperimento “consisteva nel coinvolgimento di un soggetto e di un
familiare, nel quale il bambino nutriva fiducia e che recitava una variante
del ‘Ti ricordi quella volta che…?’”
36
. I ragazzi coinvolti dall’esperimento
sostennero, in una percentuale del 25-30% dei casi, che quell’episodio era
effettivamente accaduto. Ciò che l’esperimento della Loftus può dimostrare
è che il membro più anziano della famiglia può manipolare la memoria
autobiografica di un parente più giovane attraverso una pressione
suggestiva forte ed intenzionale. Naturalmente, questo esperimento della
Loftus ha determinato molte speranze in coloro che ritenevano che si
potesse facilmente inserire nella memoria un falso ricordo e riuscire così a
dimostrare l’infondatezza di qualsiasi testimonianza di un ricordo di antica
violenza. In realtà l’esperimento della Loftus è potuto riuscire per il
carattere comune e plausibile del falso ricordo innestato sperimentalmente:
l’esperienza infantile del perdersi in un supermercato. Se non ci fosse già
stato questo script nella mente dei soggetti sperimentali, questo episodio
non avrebbe potuto essere accettato come vero. In altri termini è molto
probabile che i bambini abbiano avuto paura da piccoli di smarrirsi in un
centro commerciale o abbiano vissuto esperienze di smarrimento in luoghi
pubblici.
Pezdek ha tentato con altri esperimenti di instillare due distinti falsi
ricordi: l’essersi perso da bambino in un centro commerciale e l’essere
stato sottoposto ad un clistere anale. In questo studio mentre il 15% dei
soggetti sperimentali finiva per ricordare di essersi perso nel centro
commerciale, l’0% era disposto ad accettare l’indicazione suggestiva di
36
E. Loftus, The reality of repressed memories, American Psychologist, 1993, 48, 518-537.
essere stato sottoposto ad un clistere. Secondo Pezdek, “la tipica risposta
dei partecipanti all’esperimento, dopo aver udito il racconto del clistere,
era: ‘Diavolo, non ti credo. Mi ha fatto un clistere? Accidenti. Non mi
ricordo di aver mai fatto un clistere’”. Pezdek ipotizza che le sue scoperte
indichino che i familiari possano instillare falsi ricordi soltanto di eventi
comuni e plausibili
37
. Eventi fuori del comune, che configurano esperienze
corporee, dolorose, intrusive sono impossibili da installare come falsi
ricordi, perché nella memoria dell’individuo non esiste lo script
corrispondente e neppure può essere creato a posteriori a causa della natura
straordinaria dell’esperienza stessa.
In conclusione non è assolutamente dimostrato che il falso ricordo,
quando consiste in un evento sconvolgente e traumatizzante, si possa
inserire nella memoria autobiografica. Come dice Paola Di Blasio: “Se noi
vogliamo veramente tutelare il bambino nella fase in cui deve raccontare o
nella fase in cui elabora quello che gli sta capitando, dobbiamo garantirci
che non ci siano delle condizioni di suggestionabilità, ma dobbiamo d’altra
parte essere in grado di rigettare la tesi intimidatoria di chi ritiene che gli
operatori sono coloro che istillano nella mente del bambino una falsa
accusa, un falso ricordo, o, viceversa, che sono gli adulti accanto al
bambino che fanno questo, a meno che non si tratti di adulti che hanno
delle alienazioni patologiche che possono portare o coinvolgere il bambino
in una relazione patologica in cui queste accuse emergono”
38
.
14. La suggestione negativa
Sotto l’influenza del negazionismo, si è sviluppata una grande e giusta
preoccupazione per i rischi della suggestione positiva nell’approccio ai
minori presuntamente abusati e per la possibilità che questi ultimi possano
essere spinti a produrre dichiarazioni non veritiere; ma non è aumentata la
consapevolezza relativa alle pressioni e agli atteggiamenti di suggestione
negativa che nei processi educativi, negli interventi psico-sociali, nei
percorsi di valutazione e nelle stesse terapie ostacolano la possibilità dei
bambini di contattare mentalmente e di mettere in parola esperienze di
abusi subiti o in corso di svolgimento.
La suggestione negativa è un atteggiamento emotivo, relazionale,
comunicativo degli adulti che scoraggia la possibilità del bambino di
avvicinarsi alla propria debolezza e alla propria sofferenza per
37
K. Pezdek, What types of falses childhood memories are not likely to be planted if they are familiar,
Psychonomic Society, Los Angeles, 1995.
38
P. Di Blasio, “La suggestionabilità interrogatoria e i falsi ricordi”, Relazione al Convegno “Curare i
bambini che soffrono”, Fondazione Maria Regina, 22 ottobre 2004, Scerne di Pineto (Te).
specificarne le cause. La suggestione negativa è un condizionamento, molto
diffuso, articolato e poco studiato, che non affronta, anzi spesso favorisce i
vissuti di inibizione, colpa, paura e vergogna che impediscono ai bambini
di confidarsi e comunicare le loro richieste di aiuto e che favoriscono così
gli esiti, rilevati dalle ricerche retrospettive: il perpetuarsi della congiura
del silenzio attorno agli abusi e l’attivazione delle difese dissociative da
parte delle vittime
“Non è difficile comprendere – scrivono Steinberg e Schnall - perché i
sintomi dissociativi siano così diffusi, considerato che negli Stati Uniti una
donna su tre e un uomo su cinque sono stati in qualche modo abusati o
sfruttati prima dei 18 anni. Ciò significa che più di 70 milioni di persone
sono altamente vulnerabili”. Gli studi epidemiologici e le ricerche
retrospettive da un lato e l’esperienza clinica a contatto con diffusissime
sindromi post-traumatiche dimostrano che una massa consistente di
situazioni di violenza sui bambini vanno incontro a vari ostacoli
intrapsichici, ad interventi dissuasivi, ad atteggiamenti di indisponibilità e
di insensibilità emotiva, che impediscono alle piccole vittime per lunghi
periodi e più frequentemente per l’intera esistenza la comunicazione e
dunque l’elaborazione degli abusi subiti. Ciò nonostante sono
assolutamente carenti progetti di ricerca o disegni sperimentali per studiare
la suggestione negativa. “Dovremmo attenderci – scrivono Malacrea e
Lorenzini - una grande fioritura di studi, sperimentali o clinici, che ci
informino sulle variabili esterne, le “influenze suggestive”, che possono
inserirsi come rinforzi nella fortissima tendenza al mantenimento del
segreto, totale o parziale, per aiutare i professionisti a temerle o evitarle.
(…) Viceversa, tutta l’attenzione e l’energie paiono essere state catturate
dal problema opposto, cioè dalla probabilità che influenze esterne
conducano il bambino a credersi abusato”
39
.
Mentre si sviluppa un atteggiamento culturale ed istituzionale pronto a
sospettare, al di là di ogni legittimo e necessario dubbio, della veridicità
delle rivelazioni di abuso dei bambini, non ci si interroga su cosa può
aiutare un bambino in contesto familiare, socio educativo e psicologico-
forense a sentirsi libero e sicuro di esprimere la verità del proprio disagio
senza rischiare, se abusato, di seguire il piano inclinato della dissociazione
della propria esperienza traumatica; non si mettono in discussione i
comportamenti di fretta, superficialità, indifferenza emotiva e di
indisponibilità all’ascolto che genitori, educatori, professionisti
dell’infanzia assumono quotidianamente e le barriere alla comunicazione
che gli adulti finiscono per erigere nei confronti dei bambini portatori di
malessere. Sul piano sociale, giudiziario e giurisprudenziale l’impegno e
39
M. Malacrea, S. Lorenzini, op. cit., pp. 211-212.
l’attenzione, rivolte alla tutela del diritto alla difesa degli adulti non
vengono estesi all’altrettanto fondamentale tutela del diritto alla salute dei
bambini, di tutti quei bambini, che in un’infinità di casi non sono messi
nelle condizioni di venir fuori dalla loro vittimizzazione e di esplicitare una
richiesta di aiuto oppure che non sono messi nelle condizioni di confidarsi,
quando avviano una qualche forma di rivelazione oppure ancora non
vengono messi nelle condizioni di rendere una testimonianza adeguata,
quando riescono ad accedere ad un processo.
15. La negazione del danno
Alcuni intellettuali, appartenenti a diverse aree politico-culturali, in
saggi, interviste, talk-show, giungono a convergere apertamente con tesi
care alla letteratura pedofila, proponendo, globalmente o parzialmente, le
seguenti tesi:
a) non è accertato clinicamente il danno indotto in un bambino prepubere
dall’attivazione del suo sistema sessuale nel rapporto con un adulto;
b) non c’è nessun danno ipotizzabile da un coinvolgimento sessuale di un
minore che ha raggiunto la pubertà, soprattutto se quest’ultimo è
consenziente o addirittura richiedente la prestazione sessuale;
c) esistono di conseguenza forme di pedofilia che non devono essere
criminalizzate, se dotate di qualità (“gentile”, “altruista” o “ad iniziativa
del minore”) che non risulterebbero nocive per il minore coinvolto.
Gulotta per esempio sostiene, in contrapposizione alla Dichiarazione di
consenso del Cismai in materia di abuso sessuale all’infanzia
40
, che non si
può affatto affermare che l’abuso sessuale debba essere sempre e
comunque un attacco confusivo e destrutturante alla personalità del minore.
Egli cita a sostegno della sua posizione una ricerca antropologica
41
: “I
bambini maschi della tribù Sambia della Nuova Guinea, dall’età di sette
anni fino alla pubertà, effettuano delle fellatio ai maschi adulti, senza
tuttavia mostrare segni di trauma psicologico o di comportamento sessuale
aberrante quale risultato della loro esperienza infantile. Poiché per i
Sambia la ingestione dello sperma è ritenuto come il solo fattore di
maturazione della maschilità, l’atto non viene interpretato come
40
Cfr. CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia),
“Dichiarazione del Cismai in tema di abuso sessuale all’infanzia”, Minorigiustizia, n. 4, 1997, pp. 158-
163.
41
L’autore citato è: Kuehnle, “Child sexual abuse evaluations. The scientist practisioneer model”,
Behavioral Sciences and the Law, vol. 16, 5-20, 1998, p. 7.
sessualmente abusivo da questo gruppo culturale”
42
. Altrove
43
ho discusso
criticamente questa posizione. Qui vale la pena sottolineare che le
riflessioni e le domande che questi autori pongono sollecitano ad un
impegno rigoroso di chiarificazione, senza il quale rischia di abbassarsi
ulteriormente la soglia di vigilanza sociale e giudiziaria nei confronti dei
comportamenti pedofili.
Vittorio Messori in riferimento alla questione degli abusi sessuali
all’interno della Chiesa ha affermato: “Un uomo di Chiesa fa del bene e
talvolta cade in tentazione? E allora? (…) se ogni tanto avesse toccato
qualche ragazzo ma di questi ragazzi ne avesse salvati migliaia, e allora?
La Chiesa ha beatificato un prete denunciato a ripetizione perché ai
giardini pubblici si mostrava nudo alle mamme. (….) È il realismo della
Chiesa: c’è chi non si sa fermare davanti agli spaghetti all’amatriciana,
chi non sa esimersi dal fare il puttaniere e chi, senza averlo cercato, ha
pulsioni omosessuali. E poi su quali basi la giustizia umana santifica
l’omosessualità e demonizza la pedofilia? Chi stabilisce la norma e la
soglia d’età?”
44
. In questo ragionamento vengono completamente negate le
conseguenze sul soggetto in età evolutiva, prima beneficato in ipotesi
dall’azione pastorale, poi usato come strumento sessuale dal suo presunto
benefattore. A Messori si può rispondere affermando che la capacità di
controllo degli impulsi non è un optional, ma un ingrediente insostituibile
della maturità umana e spirituale
45
ed inoltre che l’omosessualità non va
santificata, ma riconosciuta come un’inclinazione sessuale compatibile con
la costruzione di relazioni sufficientemente paritarie, reciproche e rispettose
dell’alterità del partner. Questa compatibilità è strutturalmente
irraggiungibile da qualsiasi forma di attività sessuale pedofila.
La norma e la soglia d’età sono correttamente definite dalla legge n.
66/1996. Ciò che risulta sempre deleterio per il bambino prepubere
coinvolto sessualmente dall’adulto è da un lato un fattore psico-fisico
(l’attivazione prematura della pulsione sessuale produce alterazioni
neurobiologiche molto gravi
46
e sollecita la vittima al ricorso a forme
dissociative per tentare di difendersi dal richiamo confusivo e
disorganizzante dell’eccitazione precocemente sperimentata), dall’altro lato
un fattore relazionale (la relazione di dominio e colpevolizzazione, che
viene ad instaurarsi e a confondersi con la relazione sessuale, produce
42
G. Gulotta, “Commento alla Dichiarazione di consenso”, Maltrattamento all’infanzia, n. 2, 1999, pp.
97-103.
43
Ho discusso criticamente questa tesi in C. Foti, L’ascolto dell’abuso…, op. cit., pp. 64-65.
44
“Il problema: troppi gay nei seminari”, intervista a Vittorio Messori, La Stampa, 11 agosto 2007, p. 17.
45
Dalai Lama, D. Goleman, Le emozioni distruttive, Mondadori, Milano, 2003.
46
Cfr. D. Glaser, “Trauma infantile ed effetti sullo sviluppo cerebrale e sulla salute” (13 dicembre) ed
“Effetti neurobiologici del trauma subito in età infantile” (14 dicembre), IV Congresso nazionale
CISMAI, 2006, Montesilvano (Pe).
danni enormi all’autostima del soggetto coinvolto).
Ciò che risulta sempre deleterio per il minore pubere infraquattordicenne
è comunque l’aspetto relazionale: la sproporzione di capacità di
negoziazione e di potere che nella nostra cultura esiste in un’interazione
sessuale tra questi due partner configura inevitabilmente una china
gravemente manipolatoria e strumentale che non può non generare nel
soggetto più giovane ricadute distruttive sull’evoluzione del Sé. In questa
situazione, quand’anche è il minore a manifestare qualche forma di
consenso o interesse al rapporto sessuale con l’adulto, questo
comportamento rappresenta sempre una modalità di compensazione di un
grave malessere del minore stesso e non può costituire in alcun modo una
legittimazione della scelta dell’adulto, su cui ricade pertanto interamente la
responsabilità morale e giuridica dell’accaduto.
16. L’ascolto empatico e non suggestivo del bambino
La valutazione psicologica della presunta vittima di abuso in contesto
forense richiede un corredo di strumenti specialistici che, ben utilizzati
dallo psicologo, rendono possibile sia il riconoscimento di indicatori di
abuso che la valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni del minore.
Pezzo forte di questo corredo è la disponibilità ad un ascolto empatico e
accogliente. L’esperienza traumatica o di un grave disagio familiare, di
qualsiasi origine, e a maggior ragione l’esperienza di un trauma ha
determinato nel bambino che entra nel contesto psicologico-forense una
rottura, a volte profonda, dei legami di fiducia, di attaccamento e di
interesse per il mondo adulto. Soltanto un atteggiamento empatico
nell’intervistatore, capace di favorire nel bambino la ripresa di un
atteggiamento di apertura al mondo adulto, può sollecitare nel bambino una
qualche comunicazione autentica e non già bloccata o frammentata.
L’empatia è spesso giudicata in ambito forense come un atteggiamento
inevitabilmente suggestivo ed inquinante. In realtà l’ascolto empatico è
l’opposto della suggestione: l’empatia sta alla suggestione come
l’atteggiamento di disponibilità accogliente del genitore sta al suo
comportamento intrusivo e manipolativo. L’ascolto empatico tende a
mettere l’interlocutore nelle condizioni relazionali ed emotive migliori
affinché possa collaborare all’obiettivo di comunicare al meglio le
informazioni che l’intervista intende raccogliere. L’empatia dunque può
contrastare in modo efficace la suggestione: infatti solo attraverso il
metodo empatico chi ascolta può immedesimarsi nel bisogno del suo
interlocutore di essere fino in fondo se stesso e può coerentemente
incoraggiare nell’altro la tendenza a difendersi da qualsiasi pressione
psicologica proveniente dall’esterno, tesa a non far dire ciò che il soggetto
vorrebbe dire o a far dire ciò che il soggetto non vorrebbe dire.
Non esiste ascolto senza un impegno dell’adulto a manifestare al
bambino capacità di accettazione della sua condizione, disponibilità di
tempo e mentale a rapportarsi con lui e vicinanza emotiva. La neutralità va
intesa come disposizione mentale dell’ascoltatore preparato, che considera
le diverse possibilità con apertura e attenzione intelligente e non già come
una sorta di distanziamento emotivo che impedisce all’ascoltatore di
manifestare al bambino una qualunque forma di partecipazione al suo
problema e al suo disagio. Rispettare il ruolo dell’ascoltatore chiamato a
valutare non significa collocarsi in una posizione di distacco e superiorità,
giustificata magari da presunte ragioni tecniche. Scrivono Roccia e Guasto:
“Se proviamo ad immaginarci bambini, chi di noi confiderebbe segreti
innominabili ad uno sconosciuto? Quali buone ragioni avremmo per farlo?
Quali conseguenze potremmo aspettarci? E inoltre, se questo segreto fosse
gravato da una proibizione e da minacce, non potrei forse io confidarmi
soltanto in un contesto di assoluta fiducia, di totale garanzia? (…) Gli
sviluppi evitanti o dissociativi che sovente si osservano nella sequela dei
sintomi post-traumatici, sono anche l’espressione della recisione dei
rapporti con il mondo adulto, che si determina quando gli interlocutori
principali o esclusivi vengono meno. Perché un bambino dovrebbe
condividere il proprio segreto con uno sconosciuto? Perché dovrebbe
confidarsi con una persona lontana, fredda, neutrale? Che cosa può
aspettarsi un bambino da un adulto maggiormente preoccupato di evitare
inquinamenti con la propria presenza e con le proprie domande, piuttosto
che di ascoltare il dolore che lui prova?”
47
.
Il bambino ha bisogno di sperimentare fiducia in un interlocutore adulto,
di intuire una qualche forma di attenzione positiva e paziente in chi gli
pone le domande. Il fatto che l’adulto non debba, giustamente, introdurre
nel dialogo sentimenti soggettivi che si sovrappongono alle comunicazioni
del bambino (per esempio mostrare aperto disgusto durante il racconto o
biasimo e rabbia se il bambino accenna ad una ritrattazione oppure
manifestare desideri o aspettative per sollecitare il ricordo), non vuol dire
che egli debba assumere un atteggiamento neutrale, inteso come
impassibile e indifferente, sottraendosi a qualsiasi intervento di
riformulazione dei contenuti e dei sentimenti espressi dal bambino. Con un
atteggiamento distaccato si rischia di lasciare il piccolo testimone in balia
di vissuti paralizzanti. Si finisce per generare, anziché una suggestione
47
C. Roccia, G. Guasto, “Ti chiedo di parlare ma faccio in modo che tu taccia. La “suggestione negativa”
nei casi di presunto abuso sessuale”, in C. Foti (a cura di), L’ascolto dell’abuso…, op. cit.
positiva, una massiccia suggestione negativa nel bambino, favorendo in lui
vissuti di solitudine e di sfiducia nella comunicazione.
Bisogna quindi stare attenti a che neutralità non comunichi freddezza e
disinteresse alla persona di cui si vuole raccogliere la testimonianza.
L’intervistatore deve principalmente comunicare al piccolo che è
interessato a lui come persona e che non lo giudicherà qualunque sia il suo
racconto. Se il valutatore adulto può leggere la comunicazione analogica
del bambino, cioè il suo comportamento extraverbale, anche il bambino
può prestare attenzione alla comunicazione analogica dell’adulto che lo
ascolta e può dunque interpretare il rigido autocontrollo dell’adulto nei
confronti di qualunque forma di partecipazione emotiva come una mancata
accoglienza.
17. L’ascolto del bambino e l’intelligenza emotiva
Alcuni autori mirano esplicitamente a disprezzare e liquidare in modo
aprioristico la testimonianza infantile nel processo. In merito
all’attendibilità delle dichiarazioni del piccolo testimone Bellussi sostiene
“Hanno dunque degradato (sic!) valore le dichiarazioni che siano rese: da
colui che abbia problemi di natura fisica, da colui cha abbia problemi di
natura psichica, da colui che non abbia compiuto 14 anni, da colui che
riporti dei fatti ‘de relato’, da colui che risulti essere reticente. (…) Il
settore nel quale l’attendibilità e la credibilità del bambino sono minime è
quello attinente a vicende di natura sessuale”
48
. Non c’è proprio alcuna
speranza di portare come prova nel processo la testimonianza di un
bambino abusato: non ha compiuto 14 anni, in quanto soggetto
traumatizzato ha problemi di natura psichica e necessariamente deve
esprimersi su vicende di natura sessuale, delle quali parlerà inevitabilmente
con difficoltà e conflitto! Non solo le sue dichiarazioni, ma egli stesso
viene ad assumere un valore degradato senza alcuna speranza di poter
essere preso sul serio come testimone e come persona. Per quanto riguarda
l’atteggiamento dell’intervistatore Bellussi prosegue: “È di tutta evidenza
come in questa fase l’atteggiamento corretto dell’intervistatore debba
essere: neutrale, connotato da un sufficiente distacco, anche fisico,
sensoriale: tatto ( non toccare), vista ( non fissare lo sguardo), udito (non
prevaricare con il tono di voce, emotivamente positivo…) (…)
L’intervistatore non deve: incoraggiare il bambino a raccontare ciò che
ricorda. Incoraggiare il bambino a raccontare ciò che ricorda di un fatto
particolare. Chiedere al bambino resoconti e dettagli circa il racconto
48
G. Bellussi, L’intervista del minore nel processo, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 59-60.
appena fatto. (…) Vanno evitate nell’ambito della narrazioni tecniche le
quali possano favorire: la ricostruzione dell’evento critico, la ricostruzione
del contesto emotivo che ha accompagnato quell’evento”
49
. Qual è
l’obiettivo reale di questo modello d’intervento? Quello di raccogliere una
testimonianza incontaminata o piuttosto quello di mantenere in una
condizione di isolamento il bambino, lasciandolo annaspare nelle sue
difficoltà? Viene coerentemente teorizzato il fine pratico di non aiutare in
alcun modo il bambino ad esprimere il proprio punto di vista, i ricordi, i
sentimenti, la verità originale di cui è portatore.
Ciò che oggi risulta indispensabile invece è procedere verso
l’elaborazione di un modello d’intervista che superi le aporie dell’intervista
cognitiva e che metta al centro del metodo la prospettiva di tranquillizzare
il bambino, per quanto possibile, rispettando e valorizzando i suoi
sentimenti, al fine di aumentare la sua capacità di trasmettere informazioni
genuine. L’intelligenza emotiva appare in tutte le situazioni sociali (e
dunque anche nel contesto psicologico-forense
50
) la metodologia più utile
ad ottimizzare la comunicazione tra esseri umani. Sulla possibilità di
elaborare un modello d’intervista e di valutazione basato sull’intelligenza
emotiva Daniel Goleman ha affermato: “Penso sia molto importante che i
terapeuti o gli adulti che intervistano il bambino posseggano le abilità
dell’intelligenza emotiva, perché quello di cui il bambino ha davvero
bisogno è l’empatia: il bambino è impaurito, si vergogna ma non è capace
di dire che ha paura, non è capace di dire che si vergogna. Ma se il
bambino sente che tu davvero ci tieni a lui, che davvero vuoi capire, che
non lo stai pressando, e che tu sei un adulto sicuro, potrebbe provare a
parlare con te della sua vergogna, della sua paura e quindi essere capace
di capire meglio sé stesso, potersi gestire meglio, pensare alla propria
testimonianza, riflettere su eventuali bugie ed essere capace di stare anche
in una situazione molto dura, nel modo in cui ne ha bisogno. Trovarsi in
tribunale potrebbe portare ad un secondo trauma per un bambino e noi ci
possiamo chiedere: ‘Come possiamo stare con un bambino che è stato
traumatizzato, cosa possiamo fare per lui come adulti?’”
51
.
Vale la pena sottolineare che l’intervista basata sull’intelligenza emotiva
può aiutare nel migliore dei modi il bambino ad esplicitare eventuali
motivazioni a mentire o eventuali situazioni conflittuali nelle quali subisce
49
G. Bellussi, op. cit., p. 89 e p. 92.
50
C. Foti, “Intelligenza emotiva e suggestione nella valutazione psicologica del bambino”, in C. Foti,
Ascolto dell’abuso…, op. cit.
51
D. Goleman (2005), Intelligenza emotiva e sofferenza del bambino, Video-intervista, SIE editore,
Pinerolo, 2007.
pressioni a raccontare il falso
52
. Un bambino presunta vittima ha bisogno di
un ascolto accettante, che gli permetta di esprimere anche l’indicibile, se
presente. E l’indicibile può essere una violenza che il bambino non riesce a
comunicare, ma può essere anche una manipolazione psicologica che
incombe avvolgente su di lui. E affinché il bambino mostri le proprie parti,
per lui stesso penose o addirittura odiose, è necessario che il suo ascoltatore
non lasci cadere le comunicazioni e le emozioni del bambino, ma le sappia
contenere e riprendere con rispetto e comprensione benevola al di fuori di
qualsiasi atteggiamento suggestivo.
L’atteggiamento dialogico efficace alterna
atteggiamenti di
comprensione empatica con atteggiamenti di curiosità, intesa come
interessamento rispettoso e non pressante. L’empatia senza curiosità
partecipe non è sufficiente ad aiutare il bambino a superare le proprie
difficoltà e rischia di essere fraintesa da quest’ultimo come un
atteggiamento di non piena disponibilità dell’esperto ad avvicinarsi alla
drammaticità dello svolgimento concreto della propria vicenda. Peggio
ancora è la curiosità senza condivisione empatica, che rischia di diventare
intrusiva ed inquisitoria e di stancare il bambino intervistato (dove troverà
quest’ultimo l’energia per rispondere a tante domande, se lasciato in una
situazione di solitudine e di assenza di sostegno emotivo?). In entrambi i
casi si finisce per non realizzare affatto il principale obiettivo
dell’intervista: quello di acquisire, il più ampiamente e genuinamente
possibile, le informazioni dal bambino.
18. La diagnosi possibile
L’abuso sessuale sui bambini non è muto, pur consumandosi e
perdurando nel silenzio. Non è indimostrabile perché può lasciare tracce
molto significative e strutturarsi come un discorso i cui significanti da
collegare fra loro sono i sintomi, i vissuti emotivi e le difese post-
traumatiche, i comportamenti, le comunicazioni verbali, espressive e
corporee di chi lo ha subito: tutti segnali di cui può essere compreso il
senso, se vengono analizzati e confrontati mantenendo la mente aperta in
più direzioni. Quando un magistrato pone, nei casi di sospetto abuso
sessuale, quesiti sull’attendibilità del bambino, sulla credibilità in senso
psicologico delle sue dichiarazioni e sull’esistenza di indicatori di abuso, è
possibile nella maggior parte dei casi rispondere senza utilizzare
espressioni vaghe quali: “da quanto emerso non sembrerebbero emergere
52
Ho documentato due casi al riguardo nel libro già citato L’ascolto dell’abuso e l’abuso nell’ascolto: il
caso di Pino (cfr. pp. 85-86) e il caso di Paolo (pp. 218 e sgg.).
indicatori incontrovertibili di abuso sessuale” (senza peraltro formulare
diagnosi alternative) oppure conclusioni ambigue quali “gli indicatori post-
traumatici potrebbero rinviare ad un trauma sessuale, ma anche ai conflitti
relazionali dei genitori”. La teoria della diagnosi impossibile lascia il
bambino in una situazione disperante, nella quale gli adulti rinunciano a
priori ad individuare sul piano psicologico e giudiziario la causa, qualsiasi
essa sia, del malessere del bambino.
Quando nel corso dell’indagine peritale il bambino si chiude e comunque
non vuole o non riesce a raccontare, va valutato se la mancata narrazione
deriva dal fatto che il bambino non ha in effetti subito un’esperienza di
abuso oppure dal fatto che lo stesso bambino non ha ricevuto un aiuto
sufficiente per superare le proprie ansie e i propri meccanismi di difesa dal
ricordo. Va considerato che i bambini difficilmente desiderano parlare
dell’abuso subito, tendono ad allontanarlo dalla coscienza e la rievocazione
può essere fonte di una dolorosa riattivazione traumatica, causando sintomi
di aumentata arousal (tensione psico-somatica) e di distanziamento e di
evitamento di tutto ciò è associato all’abuso. Ovviamente occorre ricordare
che l’inibizione del bambino può manifestarsi anche in situazioni dove egli
ha costruito un’accusa menzognera o ha subito forti pressioni o
manipolazioni a dichiarare il falso.
Una forte attivazione di emozioni negative e confusive, quali la paura,
l’impotenza, il dolore, la rabbia, l’eccitazione, la colpa, ecc. possono
portare ad una forte imprecisione del racconto o ad alterazioni dovute al
ricorso a meccanismi difensivi che hanno frammentato la memoria o la
stessa mente, d’altra parte condizioni di sicurezza, di protezione, di ascolto
empatico possono favorire nel bambino la motivazione a chiedere aiuto e a
recuperare l’esperienza mentale rimossa o scissa.
Particolare attenzione deve essere data all’individuazione degli ostacoli
che possono frapporsi alla libera espressione del bambino. Spesso causa di
mancata rivelazione o ritrattazione è la preoccupazione del bambino per
minacce che ha ricevuto dall’abusante verso sé e/o verso persone a lui care,
minacce che in un’ottica adulta potrebbero ritenersi risibili, ma che il
bambino può prendere terribilmente sul serio anche a distanza di parecchio
tempo dal momento in cui tali minacce sono state proferite: il bambino può
ritenerle fondate ed attuabili, tra l’altro perché espresse da persona che gli
ha già dimostrato un’incombente capacità di controllo e di dominio. Altre
volte la piccola vittima può sentirsi preoccupata per le conseguenze della
propria comunicazione sulla madre non collusiva, percepita come fragile,
sofferente ed incapace di reggere il peso della rivelazione oppure sullo
stesso abusante, a cui ella può essere affettivamente legata. Anche il timore
di rivivere pena ed impotenza attraverso la messa in parola e la
presentificazione del ricordo possono bloccare la comunicazione del
bambino. Una delle principali cause dell’inibizione della piccola vittima è
la vergogna, ovvero la difficoltà a rivelare aspetti di sé lontani
dall’immagine ideale che ella vorrebbe presentare. La vergogna è dovuta
frequentemente al fatto di aver svolto - costretto dall’iniziativa seduttiva
dell’abusante - ruoli attivi ed eccitanti nel corso dell’abuso. L’inevitabile
complicità data dal bambino al proprio abuso diventa per lui conferma della
propria responsabilità e della propria immagine sporca, degradata,
colpevole.
Questa o altre motivazioni al silenzio perdurano fintanto che non si crea
una condizione di ascolto protettiva che può permettere al bambino di
riconoscere, almeno in parte, la sua vittimizzazione. Va ricordato che la
comunicazione di un bambino che vive una condizione di forte disagio
inizia non dalla sua bocca, ma dall’orecchio di chi ascolta, ovvero dalla
disponibilità ad un ascolto benevolo da parte di un adulto che si pone come
testimone soccorrevole.
Ogni rivelazione di abuso, anche se confusa e frammentaria, merita
approfondimento soprattutto quando è palese che il bambino non ne trae
vantaggi nell’immediato, ma anzi si trova impegnato in una narrazione
tutt’altro che eroica o gratificante dal punto di vista narcisistico, che crea
oltretutto sofferenza nel suo ambiente e scombussola i suoi legami
fondamentali, costringendolo a dover parlare di quanto ha cercato in ogni
modo di allontanare dalla coscienza perché troppo doloroso. Particolari
inesatti, assurdi, fantastici possono rientrare nelle dichiarazioni di bambini
indiscutibilmente attendibili e “la presenza di questi elementi non dovrebbe
condurre automaticamente al rifiuto della denuncia del bambino senza aver
prima analizzato i possibili meccanismi che stanno alla base del materiale
fantastico”
53
. È importante per lo psicologo avvicinarsi e tentare di dare
significato a tutte le incoerenze emotive della narrazione, per far emergere
la specificità della vittimizzazione del bambino oppure la verità di
manipolazioni profonde che possono condizionare la sua narrazione,
manipolazioni che meritano in ogni caso di essere ricostruite con precisione
e non già ipotizzate in modo generico.
In conclusione tutti coloro che si avvicinano ad un caso di presunto
abuso devono mantenere il proprio campo mentale aperto a diverse ipotesi,
devono nutrire la fiducia nella possibilità di andare a fondo nell’indagine
nel rispetto di tutti i soggetti coinvolti e coltivare la speranza di poter
costruire situazioni relazionali che consentano al bambino di esprimere e
precisare la propria verità.
53
Cfr. M.D. Everson (1997), “Elementi strani, improbabili e fantastici nei racconti dei minori”,
Maltrattamento e Abuso all’infanzia, n. 1 (1), 1999, pp. 19-58.
Cassazione penale, sezione III
sentenza 17 gennaio - 8 marzo 2007 n. 9817
pres. Aldo Grassi, rel. Claudia Squassoni
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con sentenza 27 maggio 2004, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Livorno ha ritenuto [C.F.] responsabile del reato continuato di violenza sessuale ai
danni della minore infraquattordicenne [E.] e, concesse le attenuanti generiche ed
applicata la diminuente del rito abbreviato, lo ha condannato alla pena di anni due, mesi
due e giorni venti di reclusione oltre alle sanzioni accessorie; la sentenza è stata
confermata dalla Corte di Appello di Firenze con decisione 24 ottobre 2005.
I Giudici di merito hanno ritenuto attendibile e credibile il racconto accusatorio della
giovane vittima (di anni undici all’epoca del fatti), innanzi tutto, per le modalità
espressive in sintonia con la sua età e per il contenuto delle sue dichiarazioni coerenti,
logiche e corredate da numerosi dettagli che non possono essere il frutto di suggestione
o invenzione; anche la consulente - hanno rilevato i Giudici - che ha esaminato la
minore ha ritenuto attendibile la sua narrazione.
La Corte ha preso in considerazione la tesi della difesa secondo la quale [E.] era in
rapporto di grave conflittualità con la madre ritenuta, nella errata convinzione che
avesse una. relazione sentimentale con l’imputato, la causa della separazione di genitori;
in tale contesto, secondo la difesa. andavano inquadrati i fatti per cui è processo e le
accuse che sono il frutto della colpevolizzazione della figura materna e dello
ingiustificato risentimento verso l’imputato.
Per confutare tale prospettazione, la Corte ha. rilevato come la giovane avesse percepito
il vero circa la relazione tra la madre ed il [C.F.] e non fosse stata condizionata da
suggestioni o induzioni degli adulti di riferimento; i Giudici hanno escluso che il padre
o altri abbiano interferito sulle dichiarazioni della minore ed hanno ritenuto che la
conflittualità. familiare non potesse essere causa di inquinamento della sua attendibilità.
La Corte non ha concesso la richiesta attenuante speciale, di cui all'art. 609 bis c.p,
osservando come la sfera sessuale della minore fosse stata invasa probabilmente in
modo più grave di quanto risultava nel capo di imputazione.
Per l'annullamento della sentenza, ricorrono in Cassazione il Procuratore Generale della
Repubblica e l'imputato.
Il primo sostiene che la motivazione della sentenza è un esempio di pensiero "circolare"
e trascura varie problematiche ed, in particolare:
- non tiene presente il clima di accesissima conflittualità parentale e le modalità di
assunzione delle prime confidenze rese dalla minore in seguito a domande inducenti,
suggestive e chiuse;
non considera che le dichiarazioni della giovane nello incidente probatorio
(avvenuto a tre anni di distanza dai fatti, quando [E.] era stata ripetutamente sentita sugli
episodi in esame) sono inquinate da un “insipiente malgoverno” delle sue precedenti
audizioni: la costanza delle narrazioni può essere il frutto della riproduzione di
dichiarazioni indotte;
sottovaluta la circostanza che mancano indicatori specifici di abuso sessuale e
valorizza gli esiti della consulenza condotta con metodo inappropriato.
Nell’atto di ricorso, l’imputato deduce:
che la motivazione della impugnata sentenza è apodittica, non affronta le
confutazioni difensive e non esplicita la ragione per la quale sono inattendibili le prove
contrarie;
che la valutazione sulla credibilità delle accuse è stata demandata al consulente del
Pubblico Ministero senza tenere conto delle diverse conclusioni di quello della difesa;
che i Giudici non hanno usato quella cautela e quel rigore che le dichiarazioni di
minori vittime di reati sessuali esigono in particolare quanto costituiscono l'unica fonte
probatoria;
che l’esclusione di possibili condizionamenti sulla ragazza per il clima di
conflittualità familiare e di elementi di sospetto per suggestioni o esaltazioni fantastiche
si basa esclusivamente sul convincimento personale dei Giudici;
che, nel non concedere la speciale attenuante, la Corte ha superato l’ambito della
contestazione.
*****
La particolare difficoltà che il caso pone si incentra nella circostanza che l‘unica voce
accusatoria è rappresentata dalle dichiarazioni di una bambina che era in condizione di
plateale conflittualità con la madre verso la quale nutriva un astio profondo come risulta
da uno scritto agli atti e riportato in sentenza; il sentimento di rancore era originato dalla
relazione della madre con l'imputato che la bambina percepiva quale causa della crisi
familiare.
Come nella quasi totalità dei reati sessuali, mancano testi o riscontri diretti alle accuse
e, nel caso concreto, sono carenti nella bambina sintomi collegabili al trauma sessuale.
La piccola presentava qualche disagio di equivoca genesi che ben può essere attribuito,
come ha sostenuto l'imputato, alla situazione familiare ed alla separazione dei genitori; è
noto che la risposta allo stress è aspecifica per cui le stesse reazioni emotive e
comportamentali possono derivare sia dall'abuso sessuale sia dal conflitto genitoriale,
sia da entrambi i fattori.
In tale contesto - e correttamente - i Giudici di merito hanno affidato la valutazione
della minore ad un esperto il quale avrebbe dovuto fornire solo le indicazioni e gli
strumenti sui quali fondare la decisione; il consulente avrebbe dovuto precisare quale
fosse lo sviluppo psichico della minore, le sue capacità di comprendere i fatti e di
rievocarli in modo utile ed indicare quali fossero le sue condizioni emozionali, indagare
sulle dinamiche parentali e riferire come [E.] avesse percepito e vissuto gli episodi per
cui è processo.
I Giudici, invece, hanno sostanzialmente demandato all’esperto il compito, che non è
delegabile, di valutare la attendibilità della dichiarante ed, inoltre, non hanno preso in
esame, neppure per confutarle, le differenti conclusioni del consulente della difesa.
Ciò posto, si deve puntualizzare come nessuna emergenza giustifichi la conclusione che
la bambina abbia architettato un consapevole mendacio per accusare l'imputato e, di
riverbero, la madre (anche perché il racconto pare troppo bene strutturato per essere il
frutto di una sua confabulazione) o che [E.] abbia ripetuto una trama narrativa
calunniosa da altri predisposta.
Tuttavia è prospettabile una residua alternativa, oltre a quelle ricordate e, cioè, che la
bambina abbia frainteso la realtà dal momento che è stata l'involontario veicolo di altrui
sospetti che ha convalidato dando vita ad un circolo vizioso di scambi comunicativi
attraverso i quali il fraintendimento, anziché risolversi, è stato amplificato in modo
esponenziale.
Una tale ipotesi non è teorica stante il clima familiare in cui [E.] era inserita.
È sperimentalmente dimostrato che un bambino, quando è incoraggiato e sollecitato a
raccontare, da parte di persone che hanno una influenza su di lui (e ogni adulto è per
un bambino un soggetto autorevole) tenda a fornire la risposta compiacente che
l'interrogante si attende e che dipende, in buona parte, dalla formulazione della
domanda.
Si verifica un meccanismo per il quale il bambino asseconda l'intervistatore e racconta
quello che lo stesso si attende, o teme, di sentire; l’adulto in modo inconsapevole fa
comprendere l'oggetto della sua aspettativa con la domanda suggestiva che formula al
bambino. In sintesi, l'adulto crede di chiedere per sapere mentre in realtà trasmette al
bambino una informazione su ciò che ritiene sia successo.
Se reiteratamente sollecitato con inappropriati metodi di intervista che implicano la
risposta o che trasmettano notizie, il minore può a poco a poco introiettare quelle
informazioni ricevute, che hanno condizionato le sue risposte, fino a radicare un falso
ricordo autobiografico; gli studiosi della memoria insegnano che gli adulti
“raccontano ricordando” mentre i bambini “ricordano raccontando”, strutturando,
cioè, il ricordo sulla base della narrazione fatta.
Una volta fornita una versione, anche indotta, questa si consolida nel tempo e viene
percepita come corrispondente alla realtà.
Tale accadimento è possibile perché la naturale propensione della mente umana è
verificazionista; quando ci formiamo una idea, tendiamo naturalmente ed
inconsapevolmente a confermarla attraverso l'acquisizione di nuove informazioni
coerenti con la stessa ed a destinare un trattamento opposto a quei dati che sembrano
andare in direzione contraria.
Tale via non è stata percorsa dai Giudici di merito che sbrigativamente hanno escluso
interferenze di adulti o elementi, comunque inquinanti la narrazione della giovane.
Come correttamente rilevato dal Procuratore Generale, non era importante avere come
referente le asserzioni di [E.] al momento dell’incidente probatorio quando ormai i
ricordi, veri o falsi che fossero, si erano consolidati per la loro reiterazione prolungata
nel corso di tre anni. A questo punto era ormai impossibile discernere tra una memoria
genuina ed una indotta.
Nella valutazione della testimonianza di un bambino, le primissime dichiarazioni
spontanee sono quelle maggiormente attendibili proprio perché non “inquinate” da
interventi esterni che possono alterare la memoria dell’evento.
Pertanto, importante era l'indagine sulla genesi delle prime narrazioni che, sempre
opportuna quando il dichiarante è un minore, si imponeva nel caso dal momento che
[E.] non si è confidata spontaneamente, ma su insistenza della nonna patema
preoccupata per la situazione di disagio della nipote; inoltre, il contesto era fortemente a
rischio di, pur involontarie, manipolazioni sulla minore per la ricordata conflittualità
familiare e per i sentimenti negativi della bambina nei confronti della madre.
Nessuna verifica è stata effettuata per valutare la suggestionabilità di [E.] ad opera delle
reiterate domande della nonna o per sondare le modalità con le quali la piccola è stata
interrogata dai parenti e dal legale del padre che l’ha sentita in un clima di acceso
contenzioso giudiziario.
Solo all’esito di questa disamina si poteva escludere che la minore avesse subito
interventi induttivi da parte dei suoi numerosi intervistatori (nonna, padre, operatori
vari).
Dopo il controllo sulla genuinità del racconto di [E.], si doveva procedere allo esame
delle caratteristiche generali e dei contenuti delle dichiarazioni rese nel corso dello
incidente probatorio; in assenza della ricordata verifica, anche la costanza e la coerenza
del narrato potrebbe essere una conferma della ipotesi che [E.] ripeteva un canovaccio
da altri suggerito.
II Collegio sì rende conto che la analisi si prospetta non facile stante il lasso di tempo
trascorso dai fatti e l’affievolirsi dei ricordi nei protagonisti della vicenda. Tuttavia la
ricostruzione delle modalità con le quali la maieutica degli interroganti ha dato corpo
alla narrazione di [E.], per la peculiare situazione in cui ha avuto origine la notizia di
reato, si presenta con i connotati della necessità ed è la indefettibile premessa per
concludere per l'attendibilità, o meno, della minore.
Per le esposte ragioni, la Corte annulla la impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione
della Corte di Appello di Firenze.
Nessun commento:
Posta un commento