28/1/2008 (7:40) - LA STORIA
Olindo e Rosa Romano da domani in tribunale: non siamo noi gli assassini di Erba. Ma ci sono oltre 400 pagine di verbale in cui descrivono con precisione la strage
FABIO POLETTI
COMOOlindo Romano ha la barba incolta, molti chili di meno, la solita sigaretta tra le dita e una sfrontatezza mai vista quando si presenta con un mezzo sorriso a tutti quelli che passano davanti alla sua cella, carcere del Bassone di Como, primo piano, gli agenti di custodia sulla porta che non si sa mai: «Piacere, sono il mostro di Erba». Nel reparto femminile poco più in là, sua moglie Rosa Bazzi passa lo straccio sul pavimento, la televisione è accesa ma quando si parla della strage di Erba cambia canale, la cella in ordine come mai, anche le riviste sono impilate con cura sullo scaffale: «Qui mi fanno vedere il mio Olindo solo una volta la settimana, solo per un’ora ogni giovedì. Noi comunque abbiamo la coscienza a posto». Chi li vede dice che sono due detenuti modello. Forse inconsapevoli di quello che li aspetta. Tranquilli di quella folle tranquillità che li porterà ad essere in un’aula davanti agli sguardi di Azouz Marzouk che si è salvato solo perché era in Tunisia, di Mario Frigerio che si è salvato per caso e di Carlo Castagna che li ha perdonati perché non sapevano quello che facevano. Il silenzio Gli echi delle proteste contro di loro in questo carcere che sembra una fortezza si sono spenti da tempo. Adesso regna il silenzio. Quel silenzio che secondo l’accusa hanno inseguito ad ogni costo, col coltello e con una spranga, sterminando i vicini del piano di sopra così rumorosi, vivaci. Vivi. Di quello che li aspetta domani nella Corte d’Assise di Como, cento giornalisti, cinquanta telecamere, una folla di curiosi, borbottano tra loro e con i loro avvocati: «Speriamo che ci credano». Sul piatto della bilancia dell’accusa ci sono oltre 400 pagine di confessioni dettagliate. Quelle dove Olindo Romano, netturbino sovrappeso, si sfoga come un fiume in piena: «Siamo entrati, prima io e mia moglie, ho colpito la Raffaella subito, ho colpito la madre subito e mia moglie è corsa dal bambino...». E dove Rosa Bazzi, casalinga apparentemente tranquilla, spiega come ha ammazzato il piccolo Youssef che faceva più rumore di tutti e perché sia ben chiaro a tutti quello che ha fatto, muove le mani nell’aria a tirare fendenti: «Il bambino l’ho fatto io. La mamma l’ho fatta io e gliene ho date tantissime e idem anche alla Raffaella. Tantissime coltellate». Roba da ergastolo, si capisce. Se non di più, come vorrebbe il tunisino Azouz Marzouk, la famiglia sterminata e anche lui dentro la gabbia per vecchi affari di droga (ma domani sarà in aula, come parte civile): «Per quello che hanno fatto non basterebbe la pena di morte». E invece come se niente fosse, ai primi di ottobre, il giorno del rinvio a giudizio Olindo Romano si alza in piedi davanti al giudice e si rimangia tutto: «Vorrei dire che sono innocente e che sono preoccupato per Rosa». Rosa Bazzi in aula non c’era ma manda un bigliettino: «Non corrisponde a verità quanto ho detto nelle precedenti dichiarazioni». Fabio Schembri, che insieme a Luisa Bordeaux difende Olindo e Rosa, ammette che non sarà un processo facile: «Speriamo che il troppo clamore non nuocia al dibattimento. Altrimenti il codice prevede anche la possibilità di cambiare sede». I centocinquanta testimoni che ha chiesto dovrebbero servire a smontare la ricostruzione dell’accusa. Tra loro anche un docente torinese esperto di Sindone, che sulla base delle primissime confuse dichiarazioni dell’unico sopravvissuto ha ricostruito un identikit alternativo del possibile assassino. Uno alto, con la pelle olivastra, forse uno straniero. Uno che non c’entra niente con Olindo Romano. Difesa senza speranze Ma ora più che mai saranno Olindo e Rosa a dover convincere i giudici. Olindo Romano che vorrebbe cancellare duecento pagine di dettagliatissimi verbali sostenendo di avere ricevuto pressioni dagli investigatori: «Mi dicevano che se non confessavo non avrei più rivisto mia moglie. Ma non siamo stati noi. Se no saremmo scappati in Svizzera. Tanto si capiva che eravamo noi i sospettati». Rosa Bazzi che in cella fischietta quando tira la coperta grigia sulla branda: «Sul mio conto hanno detto solo balle». Il pm Massimo Astori in aula porterà anche i bigliettini indirizzati a sua moglie trovati nella cella di Olindo. E le annotazioni a margine di una Bibbia, l’unico libro in cella insieme a una pila di Diabolik. Annotazioni che per il magistrato sono l’ennesima prova che sono stati loro: «Accogli nel tuo Regno il piccolo M. Youssef, sua mamma C. Raffaella, sua nonna G. Paola e C. Valeria a cui noi abbiamo tolto il tuo Dono, la Vita». «La nostra città vuole solo giustizia, non un processo trasformato in spettacolo a uso e consumo delle televisioni». Lo dice il sindaco di Erba, Marcella Tili (Forza Italia). La prima cittadina erbese misura e soppesa ogni parola prima di pronunciarla: «Qui, in città, nessuno vive con quell’ansia maniacale che sembra aver contagiato tutti in questi giorni, pronti anche a metter mano al portafogli per pagare pur di entrare in aula, dimenticando che è un processo per un fatto che ha sconvolto l’opinione pubblica e che, soprattutto, sono morte tre donne e un bambino di soli due anni».
La Stampa 28 gennaio 2008
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